IL «SINISTRISMO MASCHERA DEL MOSSAD»?

Come ampiamente previsto, più l’impatto emotivo del massacro di Gaza si fa sentire, più certi ambigui ambienti sedicentemente “rivoluzionari”, che, in ossequio al loro inguaribile opportunismo e nella famelica speranza di “fare bottino” in termini di adesioni hanno “puntato” tutte le loro misere carte politiche sulla mobilitazione a favore della “resistenza” palestinese – liberandosi senza esitazioni della zavorra di una pur minima aderenza formale ai princìpi internazionalisti tanto sbandierati quando non costa nulla e “fa chic” –, si incarogniscono e scendono agli infimi livelli del dileggio, dell’insulto e persino della minaccia.

È da mesi ormai che all’indirizzo dei comunisti internazionalisti vengono rivolte accuse che nelle intenzioni vorrebbero essere infamanti ma che rivelano altresì il grado di abiezione di chi le lancia.

Come d’incanto (ma questo è l’effetto delle accelerazioni storiche e delle mobilitazioni ideologiche lanciate dalla classe dominante, in tutte le sue varie incarnazioni), il punto di partenza di qualsiasi elaborazione e prassi politica che si propongano di muoversi nella coerenza dell’impostazione marxista, in base al quale tanto Israele quanto i Territori palestinesi – pur con tutte le rispettive specificità, le rilevanti difformità della loro composizione sociale capitalistica – sono attraversati dalla divisione di classe in borghesi e proletari, è passato dall’essere ovvia e scontata constatazione a segno inequivocabile di intelligenza col nemico, a subdolo tentativo di indebolire una “resistenza” assurta a categoria metafisica refrattaria ad ogni discriminante di classe. La maggioranza di questi assertori della lotta di liberazione nazionale, degli imperativi “resistenziali” quali obiettivo assolutizzante ed assoluto fattore identitario, non nega per principio la lotta di classe, l’impegno politico a sostegno della maturazione di una coscienza di classe, i compiti della rivoluzione proletaria. Semplicemente li pospone ad un futuro indefinito, ad un secondo tempo da subordinare alle prioritarie esigenze della lotta al nemico nazionale di turno, a quelle di una mobilitazione che non tollera gli intralci di una consapevolezza classista. Niente di nuovo nella storia del rinnegamento e del tradimento della lotta per il comunismo: verrà il tempo per la coscienza di classe e per la lotta contro il dominio borghese, ma, puntualmente, non oggi… 

In questa brutta riemersione di slogan e proclami, tanto “rivoluzionari” a parole quanto interclassisti nei fatti, non sono mancati perentori giudizi di inesistenza o di irrilevanza del proletariato israeliano (negazione a cui si è prevedibilmente accompagnata la rimozione ideologica dell’esistenza della borghesia palestinese, anch’essa collegata con mille fili a potenze regionali e centrali imperialistiche).

Ad esempio, nelle parole della TIR (Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria) è chiaramente esplicitato che i «“proletari israeliani” a cui si riferiscono con il massimo dell’enfasi gli “internazionalisti” da divani&divani, […] daranno prova di esistere per davvero come proletari solo separandosi dai propri governanti – quella prova che finora non hanno dato, e dalla quale dipenderà la salvezza del loro onore. […] Ma la denuncia dell’oppressione dei palestinesi è rimasta finora riservata ad una sparuta minoranza di singoli coraggiosi, senza mai vedere una presenza organizzata di gruppi di proletari. Davvero è il caso di dire loro: qui ed ora dovrete dimostrare se siete uomini e donne liberi o schiavi associati agli schiavisti! […] il possibile rafforzamento di una opposizione reale interna all’occupazione coloniale presuppone non l’attesa messianica del “risveglio” degli sfruttati israeliani ma, al contrario, l’intensificazione della resistenza palestinese all’occupazione e la lotta senza quartiere per l’autodeterminazione nazionale e l’emancipazione sociale»[1].

Nel 1915, un altro sindacalista “internazionalista”, il francese Leon Jouhaux, raccontava che il solo responsabile della guerra era il militarismo tedesco, complici ovviamente anche gli operai tedeschi: «la nostra responsabilità è salva», scriveva, «se il popolo tedesco non ha la forza di imbavagliare il suo militarismo, sarà necessario che troviamo noi il coraggio di imbavagliarlo»[2].

Gli internazionalisti non “da divano” non possono attendere il “messianico risveglio” della classe operaia israeliana (per ora “disonorata”). Il messaggio “internazionalista” che preferiscono lanciare, qui ed ora, è quello secondo il quale i proletari israeliani esisteranno solamente quando… saranno internazionalisti, mentre, al contrario, “l’emancipazione sociale” del proletariato palestinese coincide evidentemente con il non “separarsi dai propri governanti”. Un messaggio che è certamente il miglior regalo che si possa fare alla borghesia israeliana e alla sua tenuta sociale.

A quanto pare, è sufficiente fare abbondante uso della parola “coloniale” per trasformare la reazionaria borghesia palestinese in una forza progressiva, cancellando con un tratto di penna un secolo di maturazione imperialistica del capitalismo mondiale, magari citando a sproposito il Lenin che piace ai falsi comunisti, ovviamente non l’universalmente inaccettabile Lenin “kautskiano” del Che fare?, ma quello non compreso o falsificato dell’analisi marxista della questione nazionale.

Trasformata una compagine nazionale, quella palestinese, con le sue differenze e contrapposizioni di classe, in un indifferenziato “popolo” proletario, ecco che spunta la “patria di tutti gli oppressi” alla cui bandiera prestare giuramento di fedeltà “incondizionata”, la “nazione proletaria” di vecchia e inquietante memoria. Sostenere un qualsiasi “popolo”, nell’attuale fase imperialista, non ha di per sé alcunché di classista né tantomeno di internazionalista. Significa appoggiare di fatto la classe dominante del “popolo” che si afferma di sostenere: ovvero una borghesia che allo stato attuale non può non essere reazionaria. E non ci sono ridicole “autocertificazioni” di internazionalismo che tengano.

Il proletariato israeliano esiste oppure no? E questo proletariato che viene arruolato, e che, privo di coscienza di classe, combatte e massacra in nome e per conto della propria borghesia deve essere o no il destinatario di un messaggio internazionalista, a prescindere dalla sua attuale capacità di recepirlo? Esiste oppure no una borghesia palestinese? E questa borghesia deve essere denunciata oppure no al proletariato palestinese? La risposta a queste domande segna il discrimine tra gli internazionalisti autentici e quelli che usurpano e tradiscono questo appellativo.

Gli internazionalisti non sono pacifisti, e non negano la necessità della classe operaia di difendersi dall’aggressione alla propria esistenza fisica (come nel caso dei palestinesi), anche se gli esecutori dall’aggressione appartengano socialmente al proletariato (come nel caso di gran parte degli israeliani), ma è la presenza o meno di una seppur minima autonomia di classe a stabilire se il proletariato combatta per se stesso o per gli interessi di borghesie reazionarie quanto impotenti, pedine delle potenze imperialistiche. E se questa autonomia di classe è assente, la guerra non può costituire alcuna difesa delle vite proletarie, ma al contrario la loro messa all’incanto per sudici calcoli politici borghesi, la loro trasformazione in merce di scambio e in strumento di manovre diplomatiche.

Il fatto incontestabile che oggi in Medio Oriente l’acqua della solidarietà internazionalista del proletariato per spegnere l’incendio della guerra e del massacro imperialista scarseggi non assolve chi getta benzina sulle fiamme.

Nella frenesia di accaparrarsi medagliette di latta da benemeriti della “resistenza” palestinese – condotta da Hamas – gli internazionalisti di dubbio conio non esitano nemmeno a sacrificare quel femminismo aclassista e borghese di cui sono intrisi. Sempre pronti, in virtù del loro opportunismo biadesivo, a lanciare platonici strali contro l’«ideologia familista e patriarcale profondamente ostile alle donne» alle nostre latitudini, appioppano a chi evidenzia il medesimo – se non peggiore – trattamento riservato alle donne di Gaza sotto la ferula del partito-Stato, religioso, borghese, ultrareazionario, corrotto di Hamas, la taccia di “femminismo coloniale”. C’è da supporre che questi “marxisti del XXI secolo”, questi costruttori di un “nuovo movimento operaio”, “antirazzisti” e “anticolonialisti”, ritengano implicitamente che le donne arabe abbiano la “pelle più dura” e che soffrano per l’oppressione di genere meno di quelle “occidentali”. Si tratterebbe della riedizione di quell’antropologia colonialista, di quel razzismo che fino al secolo scorso giustificava con simili argomentazioni le proprie prevaricazioni nei confronti dei popoli oppressi. Ma a ben vedere, cos’è il terzomondismo se non un sottoprodotto ideologico “occidentale” dell’imperialismo? Un terzomondismo condito di quei sensi di colpa “occidentali” che solo l’intellighenzia piccolo-borghese può e deve provare, non certo il proletariato cosciente.

Nel tentativo di introdurre nel proprio campionario degli orrori un pizzico di “internazionalismo” di contrabbando – probabilmente con intenti di futura autoassoluzione – è stato persino riesumato un documento della Terza Internazionale che, pur elaborato all’epoca dell’ancor recente sconfitta della Rivoluzione d’ottobre e della vittoria della controrivoluzione stalinista, riesce comunque a collocarsi ancora al di sopra delle attuali deiezioni terzomondiste.

L’Appello dell’Ufficio orientale dell’Internazionale Comunista contro l’imperialismo e il sionismo in Palestina, del febbraio 1925[3], rappresenta in effetti una «condanna anticipata» di tutti coloro che «parlano a vanvera» di internazionalismo, facendosi oggi più o meno consapevoli strumenti di quello stesso imperialismo che ieri come oggi, sapeva «bene come sfruttare l’antagonismo nazionale […]. Eccitando gli arabi contro gli ebrei e gli ebrei contro gli arabi…». Rileggiamo volentieri il documento pubblicato non senza aver verificato attentamente la correttezza della trascrizione. È noto che, dopo la mistificazione dei concetti, la falsificazione dei testi è dietro l’angolo – evidenziandone però proprio quelle parole di fuoco che certi improbabili “internazionalisti” non possono più pronunciare senza imbarazzo: «Il partito comunista vuole l’organizzazione dei lavoratori palestinesi, arabi ed ebrei, senza distinzione di nazionalità, e la costituzione di federazioni sindacali unite su una piattaforma di lotta di classe. […] Viva l’unione fraterna e rivoluzionaria degli sfruttati arabi ed ebrei!».

Purtroppo, i soggetti politici che pretendono di rifarsi all’esperienza bolscevica e alle indicazioni leniniste, piegate e distorte alla bisogna, sono la lampante dimostrazione che esiste ancora chi si fa sfruttare dall’imperialismo o dalle putride entità politiche nazionaliste che oggi ne sono la filiazione funzionale. Nel caso della nostra classe, disgraziatamente, per mancanza di una coscienza proletaria organizzata; nel caso dei falsi internazionalisti, invece, per un opportunismo conclamato e per una profonda e radicata condivisione di concetti e miti inerenti ad un “humus politico” che altro non è, in fondo, che una secrezione “di sinistra” dello stalinismo.

Lo stalinismo, in rapporto con costoro, si trova nella paradossale condizione di “padre illegittimo”, di genitore non riconosciuto da figli naturalissimi, benché chiassosamente intemperanti. Ma a questo si riduce tutto il loro presunto “antistalinismo”: a intemperanza, a strillo querulo lanciato contro una ghigna che, sotto la sua pelle cornea, rimanda senza misericordia la struttura dei lineamenti controrivoluzionari di chi lo emette. È contro questa somiglianza di famiglia che si grida, per assordare la vista. E allora le “questioni nazionali”, la concezione dello Stato, quella del socialismo, affiorano dal sudario delle proclamazioni “internazionaliste” come da una sindone che ha ben poco di sacro.

Negli ultimi giorni, in seguito alle zuffe avvenute negli atenei di Milano e di Roma tra attivisti di Lotta comunista e studenti attendati nei corridoi delle facoltà – impegnati in una mobilitazione fra le più esigue di sempre, se paragonata a quelle di altre stagioni e di altri Paesi –, abbiamo potuto verificare quanto sia sufficiente un ancora limitato innalzamento delle tensioni internazionali – non una guerra mondiale – per far scattare il relais di uno stalinismo latente e dei suoi lerci metodi. Dal “sinistrismo maschera della Gestapo” di Secchia al “sinistrismo maschera del Mossad” il passo è stato brevissimo.

Il tutto, per una manciata di volantini di Lotta comunista[4] il cui contenuto è una versione anestetizzata dell’internazionalismo che somiglia ad una accalorata difesa dei rapporti tra le università italiane e quelle israeliane e ad un’apologia dell’Erasmus. Una lettera aperta rivolta ai figli, perlopiù spoliticizzati, di una borghesia colta, laica e progressista interessati al ritorno alla normalità accademica. Un generico e filantropico «aprire le porte» ai giovani stranieri che diventeranno «impiegati, tecnici e ingegneri salariati» (e perché non operai, magari specializzati?), che, più che un riconoscimento dell’oggettivo rinfoltirsi delle forze di classe, sembra piuttosto il bando di reclutamento di un capitalismo italiano a corto di manodopera qualificata. Una presa di distanza dalle iniziative universitarie filopalestinesi condotta non in nome della discriminante di classe e che ha tutte le sembianze della ricerca di una rispettabilità socialdemocratica.

Recarsi per due volte in una settimana nei pressi del presidio degli accampati filopalestinesi e “ingaggiare battaglia” significa essere perfettamente consapevoli che la cosa avrà copertura mediatica.

È lecito dunque chiedersi quale sia la ratio che sottende queste azioni – escludendo le isteriche accuse di “filosionismo” che sono tristemente speculari a quelle di antisemitismo rivolte a chiunque muova critiche ad Israele – e formulare due ipotesi, non necessariamente escludentisi a vicenda. O si è trattato soltanto di un messaggio “persuasivo”, rivolto a chi ha tentato – senza averne la forza – di togliere agibilità politica nelle università a tutte le soggettività politiche “non allineate” nel sostegno alla “resistenza palestinese”, tentativo che Lotta comunista non poteva accettare, né per motivi pratico-organizzativi né per motivi di immagine; oppure, il messaggio inviato urbi et orbi era rivolto a quella parte di coloro che si richiamano più o meno coerentemente all’internazionalismo proletario e che da più di un anno Lotta comunista cerca apertamente di egemonizzare con convegni e iniziative di vario genere. Un sursum corda rivolto agli afflitti, ai preoccupati dall’inasprirsi del confronto politico, privi della capacità teorica e organizzativa di farvi fronte: dal momento che la “resistenza palestinese” è assurta, presso i rigurgiti dello stalinismo, a “categoria dello spirito” che non può tollerare il dissenso, identificato tout court con il “sionismo” e minacciato nei suoi spazi di espressione, chi difenderà gli internazionalisti, se non l’unica formazione che, oltre a non essersi allineata nella solidarietà “incondizionata” alla causa nazionale palestinese e a continuare a richiamarsi più o meno convintamente all’internazionalismo, dispone di una solida dimensione organizzata?

I risultati di questo ipotetico quadro sono già visibili. Stiamo assistendo alla formazione di due poli di diverso peso e proiezione, ma entrambi distanti dall’autentico internazionalismo proletario. Se da un lato si sta raccattando il fondo del fondo della porcilaia stalinista, terzomondista, movimentista, Lotta comunista sta invece gradualmente egemonizzando molti di coloro che, in un passato anche recente, si erano limitati a deriderla per frustrazione dimensionale, spocchia dottrinaria malriposta e incapacità di comprenderne la reale deriva, e che, giunti infine alla consapevolezza del proprio disastro politico, sentono ormai il bisogno di un “porto organizzativo sicuro”. Da questo maelström restano fuori, per ora, gli “internazionalisti per caso”, che per troppi anni si sono sbellicati nel lanciare freddure da bar dello sport sui “giornalai” e sui “testimoni di Genova” di Lotta comunista. Soggetti perlopiù incapaci di misurare la profondità della propria sconfitta e che si lagnano con il lerciume stalinista più che altro per non aver operato doverosi distinguo tra loro stessi e Lotta comunista, come se potessero scegliere loro in quale categoria farsi schiaffare dagli avversari. Fuori dal gorgo rimane, e deve rimanere, anche la minoranza degli internazionalisti per scelta consapevole. Quelli che hanno preso le distanze da Lotta comunista sulla base di una seria analisi della sua degenerazione, non per giudizi viscerali spesso viziati da una malcelata invidia organizzativa e dimensionale che rivela una desolante contiguità dei piani di pensiero. Quelli che non si fanno ipnotizzare dall’azione “muscolare” di Lotta comunista – azione in merito alla quale non trinciano alcun giudizio moralistico (un mezzo come un altro per fini che non sono i nostri) – al punto da dimenticare il contenuto delle proprie critiche o al punto di accorrere sotto la sua ala “protettrice”, grati e sollevati per un’operazione da “Settimo Cavalleggeri” del mondo internazionalista.

Quanto ai socialsciovinisti, ai terzomondisti pronipoti di sua maestà Stalin, sappiamo bene con chi ce l’hanno quando, esattamente come gli stalinisti di ottanta anni fa, non mostrano remore nel denunciare indirettamente alla repressione i loro avversari politici, magari con corredo di foto e video. Sappiamo bene che, quando affilano i loro artigli con l’internazionalismo di maniera di Lotta comunista – che per loro stessa ammissione molto di rado incontrano sulla propria strada – parlano (a distanza di sicurezza) a suocera ben piazzata perché nuora ancora magrolina intenda.

Sia chiaro a entrambi i poli in nuce che, come scriveva Amadeo Bordiga in ben altre circostanze, l’ultraminoritario nucleo dei comunisti internazionalisti «può essere malmenato e mal ridotto ma non prenderà mai le vie dell’adattamento e della prudente dissimulazione, necessarie a farsi tollerare dai prepotenti»[5].

Gli internazionalisti non si sono mai sognati di negare l’esistenza di un’oppressione nazionale palestinese, di una nakba lunga un secolo e non ancora finita. Ciò che neghiamo è che saltellare dietro alla bandiera della borghesia palestinese possa portare ad una soluzione proletaria della tragedia in atto. L’unica cosa a cui conduce è al prestarsi a fare da cassa di risonanza per quelle forze reazionarie, strumenti dell’imperialismo, che sulla pelle dei proletari palestinesi conducono da più di un secolo i loro luridi giochi. Specularmente a chi, dal lato opposto, fa da megafono alla barbarie della borghesia israeliana e dei suoi alleati, capaci di massacrare o di lasciar massacrare decine di migliaia di civili inermi, donne, anziani e bambini per liquidare una manciata di miliziani.

Tuttavia, è preciso dovere degli internazionalisti non cedere al sudicio ricatto morale dell’emotività. Ed è questo che consente loro di vedere quella realtà che per altri è soltanto un alibi verbale per ogni cedimento alle ideologie borghesi. Le immani sofferenze dei proletari palestinesi le sentiamo nella nostra carne molto più di chi su di esse sbraita da mesi. E sono soltanto una frazione di quelle della nazione oppressa alla cui causa si dedica ogni vero comunista: il proletariato mondiale.

Circolo internazionalista «coalizione operaia» – Prospettiva Marxista


NOTE

[1] https://pungolorosso.com/2023/12/09/nemici-giurati-falsi-amici-e-veri-alleati-della-causa-palestinese-tendenza-internazionalista-rivoluzionaria.

[2] A. Rosmer, Il movimento operaio alle porte della Prima guerra mondiale, Jaca Book, Milano, 1979, p. 258.

[3] https://pungolorosso.com/2024/02/11/la-terza-internazionale-contro-limperialismo-e-il-sionismo-in-palestina-febbraio-1925-parole-profetiche.

[4] Facciamo chiarezza, 9 aprile 2024.

[5] Da Il processo ai comunisti italiani – 1923, Libreria editrice del PCd’I, Roma, 1924.

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