Il marxismo è “eurocentrico”?

Seconda parte di un articolo pubblicato nel numero 124 di Prospettiva Marxista, luglio 2025.
Ancora negli anni Ottanta del XIX secolo, Engels ritiene che alcune popolazioni possano emanciparsi dal dominio coloniale solo in seguito alla vittoria della rivoluzione socialista nei paesi che le opprimono. Nella previsione di Engels le colonie di popolamento, ovvero quei territori nei quali il capitalismo è stato importato pressoché immediatamente in concomitanza con l’insediamento di una crescente immigrazione europea (che ha comportato il genocidio delle preesistenti popolazioni, la loro riduzione in schiavitù o la loro marginalizzazione e subordinazione sociale), come Canada, Australia, Sudafrica, avrebbero ottenuto l’indipendenza persino prima del trionfo della rivoluzione socialista nella madrepatria, mentre
… i paesi semplicemente sottoposti a un dominio e abitati da indigeni, come India, Algeria, i possedimenti olandesi, portoghesi e spagnoli, dovranno essere temporaneamente assunti dal proletariato e guidati il più rapidamente possibile all’indipendenza. Come si svilupperà questo processo è difficile dirlo; forse, anzi con tutta probabilità, l’India farà una rivoluzione, e poiché un proletariato che sta realizzando la propria emancipazione non può condurre una guerra coloniale, glielo si dovrebbe concedere, anche se ciò comporterebbe naturalmente grandi distruzioni, ma cose del genere sono dopo tutto inseparabili da ogni rivoluzione. Lo stesso potrebbe avvenire anche altrove, p. es. in Algeria e in Egitto, e per noi sarebbe sicuramente la cosa migliore. Avremo già abbastanza da fare a casa nostra. Quando l’Europa si sarà riorganizzata, e l’America del Nord, la potenza risultante sarà talmente colossale, e rappresenterà un tale esempio, che i paesi semicivilizzati seguiranno praticamente da sé; ci penseranno i loro bisogni economici. Quali fasi sociali e politiche dovranno poi attraversare questi paesi prima di giungere anch’essi all’organizzazione socialista mi pare una questione sulla quale oggi possiamo fare soltanto delle ipotesi piuttosto oziose. Una cosa sola è certa: il proletariato vittorioso non può imporre a un popolo straniero nessun tipo di felicità, senza con ciò compromettere la sua stessa vittoria. Ciò naturalmente non esclude in alcun modo le guerre di difesa di vario genere.[1] [grassetti redazionali]
Engels non riteneva le colonie popolate da europei più avanzate e quindi mature per l’indipendenza per motivi “razziali” ma perché in quelle aree il capitalismo era stato impiantato ex novo previa completa distruzione delle autoctone comunità gentilizie ed aveva beneficiato di un periodo di tempo relativamente lungo per svilupparsi senza ostacoli[2]. Nelle più recenti colonie di controllo, popolate prevalentemente da nativi, il ritmo di sviluppo del capitalismo era stato invece più lento e contraddittorio, anche in considerazione delle concessioni e dei compromessi a cui spesso le potenze coloniali erano scese con i potentati locali per assicurarsi il dominio di quei territori.
Tenendo conto della loro relativa arretratezza capitalistica e dunque anche della presenza di un’ancora emergente borghesia nazionalista Engels riteneva improbabile che questi Paesi potessero raggiungere l’indipendenza prima di una rivoluzione socialista vittoriosa nei paesi dominanti, e la sua affermazione secondo cui i possedimenti coloniali avrebbero dovuto essere «temporaneamente assunti dal proletariato» va intesa nel senso che il processo di separazione dalla “madrepatria”, dal momento che questi Paesi non potevano continuare ad essere vincolati contro la loro volontà, sarebbe stato un problema di competenza del potere proletario, da risolvere «il più rapidamente possibile». Una rivoluzione proletaria nell’Inghilterra del 1882, ad esempio, non avrebbe potuto, con l’alibi dell’instaurazione del socialismo, mantenere il controllo dei possedimenti coloniali della borghesia spodestata. Nella misura in cui i movimenti nazionali dell’India o dell’Egitto (o dell’Algeria, nel caso della Francia) avessero approfittato dell’abbattimento del potere borghese della “madrepatria” ad opera della rivoluzione proletaria per rivendicare l’indipendenza, sarebbe stato dovere del potere proletario riconoscere l’autodeterminazione di questi Paesi, perché il proletariato vittorioso non può perpetuare un’occupazione territoriale stabilita dalla propria borghesia, non può condurre una guerra coloniale, non può imporre il socialismo dall’esterno in Paesi arretrati nei quali l’insieme delle forze sociali vi si oppongano e, soprattutto, non può presentarsi al proletariato dei paesi dominati (per quanto socialmente e politicamente debole possa essere) come il prosecutore della politica di dominio della borghesia appena rovesciata. Sarebbe stata la riorganizzazione socialista di un blocco di paesi capitalisticamente progrediti ad attrarre spontaneamente e irresistibilmente nella propria orbita economica queste nuove nazioni indipendenti, con i loro tempi e attraversando fasi che era «ozioso» predeterminare ma che potevano indiscutibilmente prevedere importanti “salti” storici, anche in base al grado di sviluppo di un autonomo movimento operaio rivoluzionario. Tuttavia, si affrettava ad aggiungere Engels, ciò non implicava che i Paesi in cui il proletariato avesse assunto il potere non dovessero rispondere con vere e proprie guerre rivoluzionarie ad aggressioni esterne, anche da parte di Paesi arretrati, colonie ed ex colonie magari scagliate contro il potere proletario da altre potenze capitalistiche in cui la rivoluzione non avesse ancora trionfato.
All’alba dell’epoca imperialista – a cui risalgono le ultime analisi di Marx e ancor più le ultime di Engels – in molti Paesi dominati, specie alcuni di recente conquista, non si erano ancora sviluppati movimenti nazionali «abbastanza forti» da impensierire, mettere in difficoltà (come i T’ai-p’ing e i sepoys) o scalzare il dominio coloniale. La borghesia, ma anche il proletariato (la base di massa dei moderni movimenti anticoloniali insieme ai piccoli contadini), erano socialmente marginali.
In una lettera del 1890 indirizzata ad Antonio Labriola – e che ha suscitato molte perplessità – Engels scrive, a proposito della colonia italiana in Eritrea fondata ufficialmente in quello stesso anno:
Riguardo alla sua terra libera, è fuor di dubbio che il massimo che si possa esigere dal governo italiano oggi, è che nelle colonie assegni la proprietà della terra da coltivare in proprio ai piccoli contadini, e non a singoli monopolisti o a società. La piccola economia contadina è la soluzione naturale e la migliore nelle colonie che vengono fondate oggi dai governi borghesi, su ciò è da vedere Marx, «Capitale», libro I, ultimo capitolo, «Colonizzazione moderna». Noi socialisti possiamo quindi appoggiare, in piena coscienza l’introduzione della piccola proprietà contadina nelle colonie già fondate. Se poi questa viene introdotta, è un’altra questione. In questi tempi tutti i governi sono troppo venduti e soggetti ai finanzieri e alla borsa perché gli speculatori non debbano impadronirsi delle colonie per sfruttarle a proprio vantaggio, e ciò accadrà certamente anche in Eritrea. Però, su questo punto si può certamente dar battaglia, anche esigendo dal governo l’assicurazione che i contadini italiani emigrati nelle colonie abbiano gli stessi vantaggi che essi cercano e, in genere, trovano a Buenos Aires. [grassetti redazionali][3]
C’è chi ha voluto vedere in queste affermazioni di Engels l’espressione di una “politica coloniale socialista” che non teneva minimamente in conto le esigenze dei nativi, la cui “terra libera” veniva indubbiamente predata dal governo italiano.
Per meglio comprendere quanto scritto in questa missiva senza lasciarsi sopraffare da una comprensibile sensibilità anticoloniale in questo caso però fuori bersaglio è opportuno soffermarsi sul fatto che, coerentemente con l’impostazione che aveva guidato le sue valutazioni sulla conquista francese dell’Algeria nel 1847 Engels riteneva che l’avvenuta conquista italiana potesse oggettivamente condurre l’Eritrea a «mettersi sulla strada della civiltà» capitalistica. In questo contesto i socialisti italiani, in assenza di un forte movimento nazionalista autoctono e in presenza di insediamenti di coloni, pur non dovendo appoggiare l’impresa coloniale (non esistono a quanto consta prese di posizione di Engels secondo le quali ad esempio il Partito socialdemocratico tedesco dovesse sostenere l’espansione coloniale tedesca), ed essendo fuori questione un ritorno all’agricoltura patriarcale, potevano a suo avviso quantomeno condurre una campagna politica di opposizione al governo borghese italiano perché assegnasse la terra espropriata ai nativi a contadini indipendenti, affinché la coltivassero con mezzi moderni, piuttosto che cederla a compagnie spogliatrici (minerarie o di piantagione estensiva). Pur non facendosi troppe illusioni sui risultati di questa campagna a favore della piccola proprietà contadina «nelle colonie già fondate», il dirigente rivoluzionario tedesco rispondeva ad una esplicita domanda posta da Labriola su come orientare la politica socialista in Italia di fronte al fatto compiuto della fondazione borghese della colonia eritrea.
Ad ogni modo, è opportuno ricordare che gli ultimi decenni del XIX secolo rappresentano una fase di intersezione tra l’epoca del capitalismo ascendente e quella della maturazione imperialistica, con tutte le sue “zone grigie” dal punto di vista della nitidezza dei fenomeni sociali e, conseguentemente, dal punto di vista della chiarezza di un’analisi materialistica della realtà, la cui capacità di misurarsi con un colossale mutamento in atto non poteva comprovarsi se non attraverso continue approssimazioni.
Dagli anni Quaranta all’ultimo scorcio del XIX secolo Marx ed Engels avrebbero potuto certamente desiderare che lo sviluppo capitalistico nelle aree arretrate avvenisse per via endogena o che la penetrazione capitalistica vi si realizzasse pacificamente, per via diffusionista; tuttavia la difformità dei modi di produzione e la sproporzione dei livelli di sviluppo a livello mondiale (che facevano inevitabilmente dei paesi extraeuropei delle facili prede dell’aggressione capitalistica) rendeva semplicemente utopistica la seconda eventualità. Si trattava dunque per il momento di prendere atto del fatto compiuto senza approvarlo e trarne tutti gli elementi di oggettivo vantaggio per l’aumento delle basi materiali del socialismo e delle sostanze infiammabili della rivoluzione.
Con il sempre maggiore delinearsi della fase imperialistica del capitalismo, con lo sviluppo del capitalismo, del proletariato autoctono e di movimenti nazionali borghesi nei Paesi dominati e, soprattutto, con l’affermarsi di un movimento operaio politicamente inaggirabile nei Paesi dominanti, il quadro complessivo e dunque anche i compiti del proletariato rivoluzionario non potevano non precisarsi.
Se nella fase ascendente del capitalismo (nel 1847 ed in parte anche in seguito) le resistenze alla feroce colonizzazione europea non potevano essere considerate lotte anticoloniali in senso moderno[4], in quanto ancora espressione della difesa di un modo di produzione arretrato che – anche opponendosi per principio alla conquista coloniale da parte del proprio Paese – non poteva essere storicamente appoggiato dal movimento operaio, con la maturazione imperialistica del capitalismo, con lo sviluppo di forze produttive che, una volta socializzate, sarebbero state sufficienti a garantire lo sviluppo omogeneo di tutte le aree del pianeta, le resistenze al dominio coloniale venivano ad assumere una funzione progressiva: sia perché rimuovevano gli ostacoli che il dominio coloniale frapponeva all’ulteriore sviluppo industriale, che inizialmente aveva suscitato[5], sia per la tendenziale convergenza della lotta del proletariato coloniale con quella del proletariato metropolitano. Esauritasi la fase storica nella quale l’espansione coloniale, con tutta la sua ferocia e brutalità, aveva rappresentato lo «strumento inconscio della storia» l’opposizione di principio di un proletariato rivoluzionario organizzato, ormai soggetto politico inaggirabile nelle metropoli capitalistiche, poteva diventare opposizione politica al colonialismo e, più in generale, all’imperialismo[6].
Nelle interessanti considerazioni introduttive di Renato Monteleone alla raccolta di scritti su La questione coloniale di Karl Kautsky, è possibile in parte ricostruire il tormentato e contraddittorio processo di chiarificazione teorica di un’autentica posizione rivoluzionaria internazionalista sulla questione coloniale nell’ambito della Seconda Internazionale e in particolare in seno al Partito socialdemocratico tedesco. Non c’è dubbio che in questo partito, come in molti altri partiti aderenti alla Seconda Internazionale, fossero molto diffuse posizioni nettamente socialimperialiste che propugnavano una sorta di “colonialismo socialista”:
Nel programma elettorale [socialdemocratico tedesco del 1906] si legge: “Si può ben concepire una politica coloniale approvabile anche da noi socialisti purché siano rispettati due principi: non opprimere gli indigeni e avere con loro rapporti di amicizia”. […] Il “Vorwärts”del 16 dicembre 1906, pubblicò un manifesto del partito dove […] si dichiarava: “Noi distinguiamo tra una politica coloniale rivolta ad educare onestamente i popoli arretrati e quella che mira a opprimere, a sfruttare o addirittura a sterminare gli indigeni”. Qualche giorno prima Bebel aveva detto quasi le stesse cose in un discorso che concludeva con questa frase destinata a sollevare molto scalpore: “La politica coloniale in determinate circostanze può diventare un’opera di civilizzazione”.[7]
Tralasciando per ora il significato che Bebel intendeva attribuire al termine “civilizzazione”, possiamo aggiungere, con Monteleone, che anche Kautsky
All’inizio del secolo in una nota redazionale sulla “Neue Zeit” dichiarò: “La lotta dei selvaggi contro la civiltà non è la nostra lotta”…[8]
Tuttavia, se si riconducono i termini “selvaggi” e “civiltà” al loro contenuto marxista, parlando più propriamente di lotta di modi di produzione arretrati contro la penetrazione capitalistica, la dissociazione proclamata da Kautsky acquisisce un senso meno distorto, soprattutto se viene precisato che nemmeno l’espansione coloniale o la repressione delle resistenze degli autoctoni può essere la lotta del proletariato rivoluzionario. Se infatti la lotta di Abdelkader contro il colonialismo francese, quella del Mahdi Muḥammad Aḥmad o degli eroici guerrieri Zulu guidati da Cetshwayo contro l’impero britannico, «qualunque amarezza possiamo sentire, personalmente, di fronte allo spettacolo del crollo di un mondo antico…», non erano la lotta del proletariato delle metropoli, non per questo il proletariato doveva appoggiare la propria borghesia colonialista e mai Marx ed Engels legittimarono l’espansione e la repressione coloniale.
Checché ne dicano gli pseudomarxisti, maggiormente propensi a sfogliare frettolosamente le introduzioni alle opere di Kautsky piuttosto che a studiarle con l’attenzione ad esse comunque dovuta – dal momento che marxista (con tutti i suoi limiti), prima di diventare un “rinnegato”, lo era pur stato (a differenza di chi non si è mai avvicinato ad esserlo, neppure per accidente) – non furono i soli Luxemburg e Lenin a riconoscere e studiare il ruolo e la funzione delle lotte coloniali all’alba del XX secolo.
Lo stesso Kautsky, almeno fino al 1910 circa, fornì un importante contributo in questo senso[9].
Mentre nel 1902 Arturo Labriola poteva scrivere sulle colonne dell’organo del Partito socialista italiano che
…l’avversione dei socialisti italiani per la politica coloniale non è, per così dire, un’avversione di “principio” […], ove si pongano da lato tutte le ragioni che condannano la violenza coloniale e la frode rivoltante contro i popoli colonizzati – ragioni che toccano più il modo e la forma, che la sostanza e l’obbietto – la dottrina generale del socialismo non ha nulla da dettare in materia di colonie.[10]
Nel 1907, in un ampio ed approfondito saggio su Socialismo e politica coloniale (che secondo Monteleone «non è esagerato» dire che rappresenti «il risultato più qualificante della nuova fase della sua riflessione teorica apertasi con l’inizio del secolo»[11]) il teorico praghese sosteneva invece che l’avversione del socialismo per la politica coloniale era tanto di principio quanto politica:
…il proletariato ha il dovere di opporsi energicamente alla conquista di nuove colonie in generale, ma con altrettanta fermezza deve appoggiare ogni movimento dei popoli coloniali verso la propria indipendenza. Il nostro obiettivo deve essere: rinuncia alle colonie e liberazione dei popoli coloniali. Solo di questo si può parlare da un punto di vista proletario e non già di fare più o meno mercato delle colonie. Noi ci battiamo per principio contro la politica coloniale, e non solo in Germania. […]
… ci si chiede di mobilitare i poteri dello Stato per sostenere gli interessi della classe capitalista contro i popoli arretrati sottomettendoli con la violenza delle armi, come avviene con la politica coloniale. A questo dobbiamo fermamente opporci. Il proletariato non deve prestarsi volontariamente a fare da gendarme dello sfruttamento capitalista: glielo impedisce la sua coscienza morale per la quale esso si batte a favore di tutti gli oppressi e i diseredati di ogni paese, razza, religione e sesso; glielo impedisce anche la solidarietà di interessi con i lavoratori di tutti i paesi, la cui oppressione all’estero si ripercuote sulle sue stesse condizioni in patria. [grassetti redazionali][12]
Nello stesso testo, Kautsky scriveva anche che
…i propugnatori di una politica coloniale “socialista” sostengono in pratica la partecipazione all’attuale politica coloniale limitandosi a condannarne soltanto i metodi di violenza.[13]
… o i costi per il bilancio statale, potremmo aggiungere.
Ma i “socialisti colonialisti” non proliferavano solo in Germania o in Francia ed in Inghilterra. Tra essi dobbiamo annoverare purtroppo anche Antonio Labriola, per quanto nel suo caso sarebbe forse più appropriato parlare di un fraintendimento politico oggettivista che condusse il marxista cassinese ad estendere ad una mal compresa fase imperialistica il ruolo di «strumento inconscio della storia» svolto dal colonialismo nella fase ascendente del capitalismo ed a legittimarlo sul piano della politica proletaria.
Per quanto possa dispiacere ai “costruttori di miti” a buon mercato (magari “nazionali”, “una volta tanto”), non sono del tutto esenti da ambiguità nemmeno le dichiarazioni rilasciate da Andrea Costa, primo deputato socialista al Parlamento del regno d’Italia, a Montecitorio nel 1887, in seguito alla disastrosa sconfitta italiana di Dogali. Costa, seppure non gridò mai Viva Menelik![14] nell’aula parlamentare, dichiarò che il proletariato italiano non avrebbe concesso «né un uomo né un soldo» per l’impresa africana, con motivazioni che appaiono però come minimo discutibili da un punto di vista internazionalista:
… di fronte all’avvenimento doloroso di cui diede un pallido cenno due giorni fa l’onorevole presidente del Consiglio, e per cui il cuor nostro sanguina come il vostro, di fronte a questo doloroso avvenimento, il nostro grido è lo stesso di due anni fa. Noi vi diciamo oggi, come allora; cessate da queste imprese pazze o criminose; richiamate le nostre truppe dall’Africa […].
Si dice: infine in Africa ci siamo e bisogna restarci. Noi non possiamo, dopo una sconfitta, andarcene via con le pive nel sacco! Ora, signori miei, io capirei questo ragionamento, quando uno qualunque di voi potesse venirmi a dire che quando avremo accordato questi cinque milioni e mandato nuovi soldati in Africa, saremo sicuri di vendicare l’onore d’Italia e di ritornare gloriosi e trionfanti. Ma io vi domando, o signori che sedete al banco dei ministri, a voi onorevole Genala, che sbagliate di un miliardo […], a voi onorevole Di Robilant, che confondete quattro predoni con un esercito agguerrito, potete darci voi questa sicurezza che, quando avremo votato i cinque milioni, saprete rivendicare l’onore d’Italia? […]. No, o signori, voi non mi potete dare questa sicurezza: ed io alla mia volta, non vi darò un centesimo![15]
Può essere, per un internazionalista, la mancanza di assicurazioni circa la possibilità di «vendicare l’onore d’Italia e di ritornare gloriosi e trionfanti» su «quattro predoni» a determinare il rifiuto di accordare i crediti militari al proprio governo borghese?
Sempre in Italia, nel luglio del 1900, in occasione della Rivolta dei Boxer in Cina, il socialista riformista Claudio Treves prendeva pubblicamente posizione a favore della partecipazione dei bersaglieri alla repressione congiunta dei moti cinesi da parte delle potenze dell’imperialismo, affermando che «noi socialisti non possiamo esonerare il governo borghese italiano dal prender parte alla difesa della società borghese capitalistica»[16].
Nelle medesime circostanze, a mostrare un atteggiamento più degno e coerente da un punto di vista marxista, è il decano del socialismo tedesco, August Bebel, che, messa da parte ogni “prudenza”, intervenendo più volte al Reichstag, non compianse le vittime occidentali delle rivolte in Cina o in Africa e non mercanteggiò la concessione dei crediti militari in cambio della certezza del trionfo delle armi del proprio imperialismo, ma dichiarò:
A giudicare da tutti i dati a nostra disposizione, sembra ora che siano stati uccisi ben più di cinquemila cinesi, senza contare donne e bambini, non solo dalle truppe tedesche, ma da tutti gli eserciti riuniti sul posto, sebbene queste persone non fossero state catturate con le armi in pugno.
In realtà, sembra che si sia trattato di una vera e propria caccia all’uomo. Non appena un cinese viene avvistato di fronte a una linea militare, viene abbattuto come una lepre, come una bestia braccata. Il solo leggere queste cose fa gelare il sangue nelle vene. E la cosa peggiore è che ci si deve chiedere invano: dove sono tutti i maestri del cristianesimo, le centinaia di migliaia di uomini il cui dovere professionale è diffondere la dottrina cristiana, dove sono e dove è la loro protesta contro tali barbarie cristiane? Finora non ho sentito una sola voce. La sete di vendetta dei cristiani non è ancora stata soddisfatta? Il Dio cristiano non ha ancora ricevuto abbastanza offerte di ringraziamento sotto forma di uomini, donne e bambini massacrati? Non abbiamo ancora bruciato e devastato abbastanza città e villaggi? Dobbiamo continuare a distruggere altri villaggi? L’inverno è alle porte; centinaia di migliaia di esseri umani sono stati privati delle risorse più necessarie e ora vagano senza tetto e affamati nei campi. Non c’è dubbio che migliaia e migliaia di loro moriranno senza trovare pietà. E tutto questo è il risultato di una spedizione punitiva omicida, inviata in nome del cristianesimo.[17]
No, questa non è una crociata, non è una guerra santa; è una guerra di conquista molto ordinaria… Una campagna di vendetta così barbara come non se ne sono mai viste negli ultimi secoli, e nemmeno tanto spesso nella storia […] nemmeno con gli Unni, nemmeno con i Vandali […] Non ci sono precedenti per ciò che le truppe tedesche e altre truppe di potenze straniere, insieme alle truppe giapponesi, hanno commesso in Cina. [grassetti redazionali][18]
Sia detto per chi ha l’abitudine di scagliare folgori a basso voltaggio e dalla traiettoria sbilenca, si tratta dello stesso Bebel che nel 1904 denunciò il genocidio degli Herero e dei Namaqua in rivolta nella Namibia, definendo la politica dell’amministrazione coloniale tedesca «non solo barbarica, ma bestiale» e spingendo il Partito socialdemocratico tedesco a votare – solo tra tutti i partiti del Reichstag – contro l’aumento delle spese coloniali. Per questi interventi “prudenti” Bebel si guadagnò da parte della stampa borghese tedesca dell’epoca lo sprezzante (per noi onorifico) appellativo di «hereroico Bebel» (Der hereroische Bebel)[19] e, in riferimento al suo partito, le elezioni generali del Reichstag del 1907 vennero definite dalla borghesia tedesca altrettanto sprezzantemente le «elezioni degli ottentotti»[20].

Se fino ai primissimi anni del ‘900 i dirigenti rivoluzionari nella Seconda Internazionale, compresi Luxemburg e Lenin, ritennero che la liberazione della maggior parte delle colonie potesse realizzarsi in seguito alla rivoluzione proletaria nelle metropoli (abbiamo già visto che in realtà già per gli stessi Marx ed Engels alcune colonie avrebbero potuto emanciparsi prima, magari scatenando la crisi generale nelle metropoli) non era in virtù di una qualche primogenitura “eurocentrica” ma in base alla valutazione materialistica dell’esperienza storica che non aveva ancora presentato alcun esempio in senso contrario. Si trattava, come abbiamo già illustrato di una valutazione di quanto la penetrazione capitalistica in questi Paesi avesse generato una forza sufficiente a scrollarsi di dosso il dominio coloniale delle vecchie potenze. Se il 1905 segna una svolta epocale in questo quadro è in conseguenza della storica sconfitta russa[21] da parte di un Paese asiatico che fino a pochi decenni prima si trovava in una condizione di subordinazione semicoloniale: il Giappone.
Lo spiega in maniera esaustiva di nuovo Kautsky:
… i popoli che si trovavano al di fuori della civiltà europea si sono mostrati, durante gli ultimi secoli, praticamente incapaci di opporre resistenza, almeno una resistenza durevole; ma ciò non era dovuto al fatto che essi per natura occupano una posizione inferiore, come crede la presunzione senza limiti della borghesia europea, che trova la sua espressione scientifica nelle fantasie dei nostri teorici della razza. Quei popoli furono schiacciati soltanto a causa della superiorità della tecnica europea; certo anche dello spirito europeo, ma la superiorità di questo si fonda, in ultima analisi, su quella della tecnica. I popoli di civiltà extraeuropea sono ben capaci – ad eccezione di poche tribù arretrate di qualche migliaio di uomini – di elevarsi alla nostra vita intellettuale, ma essi finora erano privi delle condizioni materiali per arrivare a ciò. […]
… dopo la guerra russo-giapponese, l’Asia orientale e il mondo maomettano sono insorti per difendersi dal capitalismo europeo. In questo modo essi combattono lo stesso nemico contro cui lotta il proletariato europeo. Certo non dobbiamo dimenticare che essi combattono sì contro lo stesso nemico, ma in nessun modo per lo stesso scopo. Essi si rivoltano non per condurre il proletariato alla vittoria sul capitale, ma per contrapporre al capitalismo straniero un capitalismo interno e nazionale. Non dobbiamo farci alcuna illusione su questo punto. Così come i boeri sono i peggiori torturatori, i signori del Giappone sono i persecutori più accaniti dei socialisti e i Giovani Turchi si sono già sentiti in dovere di infierire contro gli operai in sciopero. Così noi non dobbiamo porci in un atteggiamento acritico nei confronti degli avversari del capitalismo europeo che vivono al di fuori dell’Europa.
Questo non cambia nulla nel fatto che, tramite loro, il capitalismo europeo e i suoi governi saranno indeboliti e che essi porteranno un elemento di insicurezza politica in tutto il mondo. [grassetti redazionali][22]
In questi passaggi di un testo transitorio che, insieme ad alcune valide considerazioni marxiste, contiene molti degli elementi seminali della sua evoluzione opportunista[23], Kautsky anticipa nondimeno una lezione di metodo che sarà fecondamente raccolta da Lenin e che consentirà al rivoluzionario russo, nel corso della successiva piena maturazione delle caratteristiche tipiche dell’imperialismo, di riconoscere il venir meno dello stesso ruolo rivoluzionario in senso democratico-nazionale delle borghesie coloniali e semicoloniali, in concomitanza con il crescere del protagonismo del proletariato dei Paesi dominati, e la necessità che le lotte di liberazione nazionale venissero assunte dal proletariato stesso in un processo di rivoluzione in permanenza. Sarà poi il corso del XX secolo a condurci all’attuale contesto di totale insussistenza e/o dipendenza dalle centrali dell’imperialismo dei residuali sedicenti “movimenti di liberazione nazionale”.
La maggiore attenzione riservata, a partire dai primi anni del XX secolo, dall’elaborazione socialista e comunista alla tematica coloniale e più in generale dell’autodeterminazione, non rappresentava in alcun modo un superamento della presunta “limitatezza” della consegna politica (e non meramente di principio) del Manifesto del partito comunista – «Proletari di tutti i Paesi unitevi!» – che non avrebbe tenuto nel debito conto il ruolo dei “popoli” oppressi oltre a quello “eurocentrico” del proletariato “Occidentale”, bensì l’estensione di quella consegna politica ad un proletariato che, in seguito all’espansione del mercato capitalistico mondiale e alla maturazione imperialistica, ormai non era più confinato ai soli Paesi progrediti dell’Europa e del Nord America ma a quasi tutto il globo terrestre. Non era tanto in questione il fatto che il proletariato dovesse “unirsi” ai popoli oppressi – magari attribuendo a questi ultimi, in quanto tali, o ai contadini, il medesimo ruolo rivoluzionario della classe operaia – quanto che il “mondo” in cui il proletariato avrebbe dovuto unirsi era diventato più grande.
Come ebbe a scrivere ancora una volta Kautsky:
… il campo di battaglia si è enormemente allargato. Quando Marx ed Engels scrivevano il Manifesto del partito comunista, vedevano davanti a sé come campo di battaglia della rivoluzione proletaria soltanto l’Europa occidentale. Oggi è diventato il mondo intero. Oggi le battaglie della lotta di liberazione dell’umanità lavoratrice e sfruttata non vengono combattute solo sulla Sprea e sulla Senna, ma anche sullo Hudson e sul Mississippi, sulla Neva e sui Dardanelli, sul Gange e sullo Hoango. E immenso come il campo di battaglia è anche il compito che sorge infine per il proletariato: l’organizzazione sociale dell’economia mondiale.[24]
Oggi, invece, c’è chi crede (o vuole far credere), continuando a definirsi “marxista” ed “internazionalista”, che «il campo di battaglia della rivoluzione proletaria» si sia addirittura ristretto, arrestandosi ad esempio sul Dnepr e sul Giordano, sul lago Ciad o nel Golfo Persico, in questo, seguendo perfettamente proprio le orme del Kautsky “rinnegato” che, dimentico delle sue stesse riflessioni di otto anni prima, nel 1917 respingeva la natura proletaria della rivoluzione nell’arretrata Russia.
***
Prescindendo in questa riflessione dalla vexata quaestio del vero o presunto personale “occidentalismo” di Marx ed Engels, ciò che ci interessava dimostrare è se il marxismo in quanto metodo materialistico di analisi scientifica e di trasformazione rivoluzionaria della realtà sociale possa essere considerato “eurocentrico”.
L’insegnamento più profondo e duraturo che Roman Rosdolsky ci ha trasmesso con il suo rilevante saggio su Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia» è l’attitudine ad impostare l’eventuale critica di talune prese di posizione di Marx ed Engels a partire dal loro stesso metodo materialistico dialettico, dal loro stesso punto di vista generale, dunque contestualizzandole storicamente e non limitandosi a facili condanne suggerite da uno “spirito dei tempi” incapace di riconoscersi a sua volta come un prodotto storico e intriso di concezioni borghesi ontologicamente estranee ed ostili al marxismo:
… soltanto se distingueremo con cura l’essenziale dall’accessorio, la reale comprensione storica dalle mere «applicazioni» politico-pratiche, solo allora riusciremo a penetrare nel nucleo propriamente teorico del loro punto di vista e arriveremo a comprenderne il metodo scientifico.
… tutto ciò che era ed è internazionalista nell’ideologia del moderno movimento operaio non deve prima di tutto esser ricondotto alla matrice marxista di questa stessa ideologia?
Senza Marx ed Engels certamente non è pensabile l’internazionalismo del movimento operaio. Ma ciò non vuol dire che non si possa tracciare alcuna linea di separazione tra i risultati generali della loro teoria scientifica e la politica pratica quotidiana che svolgevano… [25]
Assimilando questa praxis, che sa distinguere il metodo dalle valutazioni contingenti, non c’è nulla che i marxisti abbiano timore di omettere, di celare, di negare, nemmeno qualora avanzino delle riserve su determinate considerazioni di dettaglio dei fondatori stessi del metodo. E in ciò risiede la sua forza e la sua vitalità.
Le punte parossistiche di questa soggezione ad uno “spirito dei tempi” che non si è compreso nella sua storicità, e che si è anzi spesso assecondato per motivi che hanno probabilmente più a che vedere con esigenze di autoaffermazione intellettuale che con l’onestà intellettuale, sono state raggiunte insinuando che le considerazioni di Marx ed Engels a proposito della necessità storica del capitalismo avrebbero rappresentato una copertura ideologica per l’etnocentrismo coloniale europeo.
Ciò che questi “critici” hanno omesso di illustrare è il nesso logico tra una concezione che intendeva lo sviluppo capitalistico come creazione delle basi materiali per il superamento rivoluzionario del capitalismo e perciò delle sue stesse manifestazioni coloniali, e la strumentale ideologia colonialista secondo cui i popoli costituzionalmente “inferiori”, non avrebbero potuto far altro che rimanere sotto tutela dei “superiori” popoli dominatori e a loro beneficio in un contesto capitalistico considerato come il nec plus ultra.
Per l’“eurocentrico” Marx, quali che potessero essere a suo avviso e nella sua epoca le disposizioni o il temperamento di alcuni popoli nei confronti del capitalismo:
Con lo sviluppo della produzione capitalistica si crea un livello average [medio] della società borghese e, con ciò, dei temperamenti e dispositions [disposizioni] nei differenti popoli. Per sua essenza [il modo di produzione capitalistico] è cosmopolita…[26]
È il metodo marxista che ci permette di comprendere che le “disposizioni” o il “temperamento” dei popoli presso i quali è sorto il capitalismo sono riconducibili materialisticamente a circostanze casuali, alle peculiarità geografiche, idrografiche, demografiche che hanno condizionato il loro modo di produrre e riprodurre la vita sociale, che ha a sua volta determinato i ritmi del processo storico in tutte le sue espressioni materiali ed intellettuali.
A partire da dove i primi germogli del capitalismo avevano attecchito, questi dovevano necessariamente espandersi come un’erba infestante a spese di modi di produzione autoctoni meno aggressivi, presumibilmente persino bloccando un loro eventuale sviluppo in corso. La società mercantile semplice, almeno a partire dal XV secolo, ha accelerato ed intensificato la propria evoluzione capitalistica in Europa anche grazie al brutale saccheggio coloniale delle aree relativamente arretrate del resto del mondo. È opportuno ricordare però che gli esordi di questa evoluzione sono stati tanto feroci laddove il capitalismo è sorto quanto nei continenti che esso ha depredato. In entrambi i casi ha distrutto culture, usanze, tradizioni comunitarie, ha asservito, represso e mutilato, con l’unica differenza della parziale assenza in Europa dell’impiego della particolarmente abietta ideologia razzista. Il formarsi della moderna manifattura ha poi moltiplicato il divario tecnico con le società arretrate, producendo, insieme ad armi micidiali, un individuo sociale avido e crudelmente spregiudicato; un connubio di fronte al quale qualsiasi resistenza militare dei popoli extraeuropei doveva inevitabilmente soccombere.
Nella concezione di Marx ed Engels, con l’attrazione nell’orbita capitalistica i paesi extraeuropei erano tuttavia destinati a diventare capitalistici a loro volta, non a rimanere precapitalisticamente subordinati come pretendeva il vero eurocentrismo, che, sul fondamento erroneo delle teorie antropologiche della “razza” dell’epoca, costruiva l’alibi pseudoscientifico della politica coloniale, interessata a gerarchizzare come “inferiori” i popoli extraeuropei – in base ad un concetto di “civiltà” che non ha niente a che spartire con quello marxista – per giustificare l’obiettivo del loro mantenimento in perpetuo stato di subordinazione.
Lo sviluppo del capitalismo e di una borghesia autoctona nei paesi dominati doveva peraltro rendere possibile anche l’importazione della moderna ideologia nazionalista borghese. Nel corso della successiva piena maturazione del contesto imperialistico mondiale, l’adozione di un lessico pseudomarxista mutuato dalle proiezioni internazionali della controrivoluzione stalinista doveva condurre i rappresentanti intellettuali delle borghesie emergenti dei paesi dominati (il più delle volte formatisi nelle accademie europee) alla rielaborazione dell’ideologia nazionalista borghese nella particolare forma del terzomondismo.
Materia prima di importazione europea trasformata localmente, il prodotto finito terzomondista è poi ritornato in Occidente, consumato avidamente da un’intellettualità piccolo-borghese “antimperialista” formatasi sulla base ideologica dello stalinismo, con lo scopo politico più o meno consapevole di estendere al proletariato delle metropoli – che ha storicamente sperimentato su di sé il juggernaut dell’accumulazione originaria e la ferocia della rivoluzione industriale per mano della propria borghesia – un senso di colpa per i crimini efferati commessi dalla borghesia occidentale. Ignorando, o fingendo di ignorare, che, più che condividere l’eurocentrismo coloniale della propria borghesia, il proletariato occidentale l’ha semmai subìto in quanto subalterno all’ideologia della classe dominante, condizionato dalle espressioni politiche socialimperialiste di quella parte minoritaria della classe operaia delle metropoli che la borghesia ha ritenuto funzionale corrompere al prezzo di qualche avanzo di sovrapprofitto.
Nella misura in cui si infiltra nel dibattito marxista, riuscendo a condizionarlo e a falsificarlo, anche il terzomondismo assume una funzione del tutto compatibile con le esigenze delle vecchie e nuove potenze dell’imperialismo. Tacciare il marxismo di eurocentrismo o addirittura di razzismo o fare delle concessioni teorico-politiche a simili accuse è infatti uno degli strumenti attraverso i quali il borghesissimo “spirito dei tempi” “progressista” combatte il marxismo stesso, deformandolo e rendendolo impresentabile per gli elementi più avanzati della classe operaia o, più in generale, per gli elementi più sensibili alle contraddizioni capitalistiche che potrebbero a ragione trovare in esso l’unico strumento teorico in grado di combattere conseguentemente ed efficacemente l’eurocentrismo, l’occidentalismo ed il razzismo. Non c’è in fondo nulla di più eurocentrico e occidentalista di uno pseudomarxista terzomondista occidentale, con le sue esibizioni di furore verbale “antioccidentalista” e il suo paternalistico sussiego verso tutto ciò che sembri provenire – senza sottilizzare troppo sulla sua intrinseca qualità e natura di classe – dal cosiddetto “sud del mondo”.
I marxisti, gli internazionalisti, non cedono di un millimetro su questo terreno, consapevoli che quella di classe non è una forma di oppressione fra le altre, ma la radice di tutte le altre, comprese quelle nazionali, etniche, di genere e che, se si vuole annientare l’idra capitalistica è il suo cuore che occorre saper individuare e strappare.
Con il passaggio dal capitalismo ascendente alla putrescenza imperialista, è stata l’estensione del proletariato a mutare, non la sua centralità. Quella che in passato era la periferia precapitalistica o capitalisticamente arretrata del mercato mondiale è ormai divenuta pienamente parte del centro proletario della rivoluzione sociale. Coloro che pontificano sulla “limitatezza” o sull’“immaturità” della consegna internazionalista del Manifesto del partito comunista: «Proletari di tutti i paesi unitevi», palesano in realtà il loro insopprimibile disagio di fronte al pronome “tutti”. Troppi e inconfessabili sono per costoro i motivi per i quali i proletari di certi paesi non devono unirsi nella comune lotta con quelli di altri paesi, non ultimo il desiderio di subordinare questi proletari a strati sociali piccolo-borghesi, intellettuali e contadini, loro omologhi nel “sud del mondo”.
Fino a ieri l’Occidente rappresentava il capitalismo e la rivoluzione proletaria, oggi è il mondo ad essere capitalisticamente maturo per questa rivoluzione. Il proletariato non è più geograficamente circoscritto ed è presumibile che anche il centro della sua lotta politica rivoluzionaria si sia spostato. La rivoluzione comunista ormai non deve più necessariamente vincere in Europa o nelle Americhe per poter trionfare nel resto del mondo, essa può ormai vincere anche in Asia.
Se il capitalismo, l’industria moderna, la classe operaia e la sua teoria rivoluzionaria fossero storicamente sorti in Africa o in Asia, e l’Europa ne fosse stata la colonia, proprio in Asia e in Africa si sarebbero trovati i “paesi più progrediti”, capitalisticamente “civili”, e lì sarebbe stato per tutto il XIX secolo il centro della rivoluzione proletaria mondiale. La storia non ci ha fatto il regalo di far sorgere inizialmente le condizioni materiali per il superamento del capitalismo al di fuori dall’Europa. Ma, anche qualora volessimo trastullarci con questo esperimento mentale, ci accorgeremmo rapidamente che in nulla sarebbero mutati gli elementi fondamentali di una concezione materialistica della storia che sarebbe comunque sorta sul terreno dei rapporti capitalistici e della moderna lotta di classe. Anche in quel caso, avremmo probabilmente sentito delirare a proposito dell’“Orientalismo” o dell’“afrocentrismo” del marxismo – o di qualsiasi altro nome avesse assunto la teoria – e paradossalmente si sarebbe trattato di una magnifica dimostrazione all’inverso della validità e dell’universalità di una teoria che l’ideologia borghese di ogni punto cardinale del pianeta sente la necessità di combattere e falsificare.
Prevedibilmente, le nostre considerazioni si attireranno la facile, scontata e pretestuosa accusa di “apologia del capitalismo”, del colonialismo e via farneticando, ma non è fare apologia della scala che altri costruiscono (e senza contribuire a costruirla) il servirsene per salire ad un piano superiore, che è poi il solo modo per distruggerla e non tornare mai più indietro.
Nella genericità di un “anticapitalismo” terzomondista – radicale nelle sue esternazioni verbali ma di maniera nella sua sostanza – si cela l’esaltazione acritica e indifferenziata di tutto ciò che il capitalismo ha distrutto sul suo percorso e sulle cui ceneri ha edificato, indubbiamente solo per i suoi interessi di rapina, quelle fondamenta materiali senza le quali nessuna libertà sarebbe oggi possibile per tutta l’umanità, se non quella della miseria. Nobile, fiera, ma pur sempre miseria. Anche per questo, ad un vago “anticapitalismo” che nella migliore delle ipotesi ha timore di definirsi qualcosa di più e nella peggiore vuole nascondere di essere qualcosa di meno – qualcosa che confina con quel concetto marxista di reazione che indica una precisa direzione storica –, preferiamo la franca, coraggiosa definizione di comunisti, che descrive ad un tempo ciò contro cui siamo ed insieme l’avvenire per cui lottiamo.
NOTE
[1] F. Engels, Lettera a K. Kautsky, 12 settembre 1882, in K. Marx – F. Engels, Lettere 1880-1883, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 253-254.
[2] Se a prima vista la previsione di Engels sembra essersi rivelata errata, ad un esame più approfondito si può riscontrare come già all’inizio del XX secolo il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sudafrica abbiano ottenuto nell’ambito del Commonwealth (del quale i primi tre Paesi fanno ancora parte) margini di autonomia tanto ampi da potersi considerare di fatto se non formalmente indipendenti.
[3] F. Engels, Lettera ad Antonio Labriola indirizzata presso Pasquale Martignetti, 30 marzo 1890, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1983, vol. XLVIII, p. 392.
[4] Nella concezione metafisica ed antistorica del terzomondismo (compreso quello pseudomarxista) le lotte dei galli contro la dominazione romana, quelle degli scozzesi contro gli inglesi nel XIII secolo, dei nativi americani nel XVIII secolo e quelle dei popoli asiatici e africani nel XX sono tutte manifestazioni della stessa, immutabile, eterna categoria dello spirito chiamata “lotta anticoloniale”.
[5] Ad un certo punto il dominio coloniale diventa un impedimento all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Dopo aver introdotto gli elementi del progresso per i propri interessi, per difendere quegli stessi interessi il capitale commerciale tende a preservare gli elementi di regresso e di stagnazione, scontrandosi anche con il capitale industriale che tende invece a liberarsi dell’immobilismo coloniale per aprire quei mercati a più intense ed estese esportazioni di capitali.
[6] Nella misura in cui il movimento operaio diventa una consistente forza politica nella società, il problema di una posizione politica del proletariato sulla questione coloniale da astratto diventa concreto. Finché il proletariato non ebbe la forza di opporsi alla colonizzazione, questa presentava ancora ricadute storiche oggettivamente progressive, quando queste ricadute vennero meno, il movimento operaio era finalmente in grado di opporsi all’espansione coloniale, sia nella metropoli che nei Paesi dominati.
[7] R. Monteleone, Ortodossia marxista e socialimperialismo (1900-1909), in K. Kautsky, La questione coloniale, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 89. Le citazioni testuali presenti nell’introduzione di Monteleone sono riportate, quasi nella stessa sequenza e senza alcun riferimento alla fonte, in uno scritto del blog pseudointernazionalista “pungolo rosso”.
[8] Ibidem, p. 86.
[9] Già nel 1883, in un articolo espressamente elogiato da Engels, respingendo il Kultursystem coloniale olandese in Indonesia Kautsky scriveva che quest’ultimo: «parte dal presupposto che gli indigeni siano come dei bambini da educare a essere indipendenti» (non esattamente un esempio da manuale di “eurocentrismo”). Cfr. K. Kautsky, Emigrazione e colonizzazione, 1883, in La questione coloniale, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 49. Semmai potremmo rimproverare a Kautsky, tra le molte altre cose, il probabile conio dell’ambiguo concetto di “neocolonialismo” («der neuen Kolonialära», cfr. K. Kautsky, Socialismo e politica coloniale, 1907, in La questione coloniale, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 147). Un concetto che tanta fortuna ha riscosso presso quei terzomondisti presumibilmente ignari della sua origine ad opera del “Papa rosso”, ben prima che Kwame Nkrumah lo rendesse celebre nel 1965. Che “onta” per costoro essere debitori di quello stesso Kautsky che evocano solo per la rituale damnatio memoriae, recitando scongiuri su quegli elementi validi del suo pensiero, in seguito ripresi da Lenin, che non possono né comprendere né accettare.
[10] Ar. Labriola, La questione coloniale e i socialisti, Avanti!, 28 aprile 1902, cit. nell’introduzione di Valentino Gerratana agli Scritti politici di Antonio Labriola, Laterza, Bari, 1970, p. 93.
[11] R. Monteleone, Ortodossia marxista e socialimperialismo (1900-1909), in K. Kautsky, La questione coloniale, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 93.
[12] K. Kautsky, Socialismo e politica coloniale, 1907, in La questione coloniale, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 131 e 144.
[13] Ibidem, p. 131.
[14] Il monarca etiope Menelik II fu un modernizzatore che in una certa misura ebbe la forza di utilizzare a favore del proprio Paese i contrasti tra le potenze dell’imperialismo, senza farsene passivo strumento o appendice parassitaria interessata esclusivamente alla sopravvivenza della propria cricca politica e al costo dello sterminio del proprio popolo, come per esempio un Yahya Sinwar, la cui morte in battaglia non equilibra l’eccidio di oltre 60.000 gazawi che quella battaglia non hanno scelto di combattere.
[15] Atti parlamentari della Camera dei deputati, Tornata del 3 febbraio 1887, in https://storia.camera.it/regno/lavori.
[16] C. Treves, Il ponte dell’asino, La Tribuna, 20 luglio 1900, cit. nell’introduzione di Valentino Gerratana agli Scritti politici di Antonio Labriola, Laterza, Bari, 1970, pp. 96-97.
[17] A. Bebel, Gli unni di Guglielmo, 1900, intervento al Reichstag, in Voices of Revolt, Speeches of August Bebel, International Publishers, New York, 1928, pp. 66-67. È difficile non rimanere impressionati dalla somiglianza delle immagini evocate con quelle del massacro in atto a Gaza ed è altrettanto difficile non rammaricarsi per l’assenza ad oggi in Israele di una voce che si levi potente e accusatoria come quella di Bebel.
[18] A. Mombaurer, Wilhelm II, Waldersee, and the Boxer Rebellion, in The Kaiser, Cambridge University Press, 2003, p. 97.
[19] A. Deas, Germany’s Introspective Wars. Colonial and Domestic Conflict in the German Press. Discourse on Race. 1904–1907, Brandeis University, 2009 – 2014, p. 45.
[20] H. W. Smith, The Talk of Genocide, the Rhetoric of Miscegenation: Notes on Debates in the German Reichstag Concerning Southwest Africa, 1904–1914, in The Imperialist Imagination: German Colonialism and its Legacy, University of Michigan Press, 1998, pp. 107–123.
[21] La sconfitta inflitta dagli etiopi all’“imperialismo straccione” italiano a Adua nel 1896 non poteva indurre a bilanci paragonabili.
[22] K. Kautsky, La via al potere, 1909, Laterza, Bari, 1974, pp. 156 e 159-160.
[23] Non ultimi l’idea di una “conquista del potere politico” concepita nei termini ambigui di una «trasformazione dei rapporti di forza nello Stato» senza alcun accenno alla necessità della distruzione della macchina statale borghese; il mancato riconoscimento della necessità della violenza rivoluzionaria del proletariato e l’esagerazione delle possibilità politiche inerenti alla forma democratica borghese.
[25] R. Rosdolsky, Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova, 2005, pp. 172-173 e pp. 253-254. Rosdolsky aggiunge: «Mayer [un biografo di Engels] ha pensato di poterne spiegare l’atteggiamento con la mentalità occidentale: lo ha definito «un inveterato europeo occidentale». Questa, naturalmente, è una frase fatta che non dice nulla». Ibidem, p. 251.
[26] K. Marx, Teorie sul plusvalore, vol. III, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1979, vol. XXXVI, p. 482.
