PER IL «LETTORE PERSPICACE» – «Genesi e struttura» della tattica leniniana del disfattismo rivoluzionario – II

Dalla postfazione al testo di Roman Rosdolsky – STUDI SULLA TATTICA RIVOLUZIONARIA, Movimento Reale, Roma, giugno 2025, pubblicata anche in opuscolo.
… fra gli internazionalisti russi in esilio era iniziato un aspro dibattito in merito alla tattica proposta da Lenin. La posizione di Trotsky fu inizialmente assai critica.
Nel suo opuscolo La guerra e l’Internazionale, scritto durante il suo soggiorno di due mesi a Zurigo e pubblicato a partire dal novembre 1914 sul Golos, il giornale di Martov in Russia, Trotsky affermò:
Non dobbiamo nemmeno per un momento prendere in considerazione l’idea di acquistare la dubbia liberazione della Russia con la distruzione certa della libertà del Belgio e della Francia e, cosa ancora più importante, inoculando così il virus dell’imperialismo nel proletariato tedesco e austriaco.
Quanto alla possibilità «che la sconfitta dello zarismo potesse effettivamente aiutare la causa della Rivoluzione», Trotsky riteneva che non ci fosse «nulla da dire contro», era infatti quanto avvenuto nel 1905. Tuttavia,
…mentre la guerra russo-giapponese indeboliva lo zarismo, rafforzava il militarismo giapponese. Le stesse considerazioni si applicano in misura ancora maggiore all’attuale guerra tedesco-russa.
Inoltre, per Trotsky, una rivoluzione in Russia che fosse stata causata dalla sconfitta avrebbe trovato già sul nascere le baionette tedesche puntate sul suo petto, e ciò non avrebbe certamente costituito un elemento favorevole.
Dunque, per Trotsky
… i socialdemocratici non potevano e non possono ora intrecciare i propri obiettivi con nessuna delle responsabilità storiche di questa guerra, cioè con la vittoria della Triplice Alleanza o con la vittoria dell’Intesa.[1]
In realtà, sacrificando le possibilità della «liberazione della Russia» legate alla sconfitta militare – che considera “dubbie” – al rifiuto di accettare l’eventualità considerata “certa” che tale sconfitta contribuisca alla distruzione «della libertà del Belgio e della Francia», è precisamente Trotsky, che, oltre ad attribuire a Lenin un ristretto punto di vista nazionale (la sola “libertà russa”), “intreccia” e vincola gli obiettivi dei socialdemocratici russi «con la vittoria della Triplice Alleanza o con la vittoria dell’Intesa»; ed è precisamente Trotsky ad intrecciare il programma rivoluzionario del proletariato internazionale con le «responsabilità storiche di questa guerra», con le responsabilità borghesi della guerra, con le occupazioni e le annessioni imperialistiche.
Come abbiamo avuto modo di appurare, Lenin non “intreccia” gli obiettivi dei socialdemocratici con la vittoria di nessuno dei due blocchi imperialisti, al contrario, li ritiene entrambi reazionari, ed esattamente per questo motivo propone una comune strategia e tattica al proletariato di tutte le nazioni belligeranti; ed è unicamente nel considerare i compiti specifici della rivoluzione russa[2] che Lenin separa la questione della vittoria o della sconfitta della Russia dalla sorte dello schieramento di cui fa parte, ritenendo la sconfitta russa auspicabile in ogni caso.
Tuttavia Lenin non isola la particolare condizione russa dal contesto europeo, al contrario, concepisce l’assolvimento dei compiti specifici della rivoluzione russa come un elemento di rottura che partendo dall’anello debole della catena imperialista può spezzarla tutta, ponendo realmente fine alla guerra ed alle annessioni imperialiste. Nel contesto della guerra imperialista mondiale, qualsiasi altro modo di evitare la «distruzione certa della libertà del Belgio e della Francia» si realizzerebbe al prezzo dell’“intreccio” degli obiettivi dei socialdemocratici con le responsabilità borghesi della guerra.
Ad “inoculare” il «virus dell’imperialismo» nel proletariato tedesco ed austriaco erano stati semmai i “socialisti” difensori della patria, coloro che non potevano concepire in nessuna circostanza la sconfitta della patria, ed è esattamente da costoro che Lenin voleva prendere le distanze agli occhi della classe operaia internazionale, un obiettivo che con ogni evidenza Trotsky perseguì con minore determinazione, come testimoniato dalla sua attività politica de facto conciliatoria fino al 1917.
Nelle pagine del suo giornale parigino, Naše Slovo, Trotsky qualificava il disfattismo di Lenin come «difensismo rovesciato» e «socialpatriottismo rovesciato» e in una lettera aperta al comitato editoriale del Kommunist, nel giugno 1915, illustrava i suoi disaccordi con Lenin sia in merito alla parola d’ordine della “pace” che nei riguardi del disfattismo:
Non posso conciliarmi con la vaghezza e l’evasività della vostra posizione sulla questione della mobilitazione del proletariato sotto la parola d’ordine della lotta per la pace, parola d’ordine sotto la quale, di fatto, le masse lavoratrici stanno ora recuperando il loro senso politico e gli elementi rivoluzionari del socialismo si stanno unendo in tutti i paesi; la parola d’ordine sotto la quale si stanno ora tentando di ripristinare i contatti internazionali tra il proletariato socialista.
E aggiungeva:
… in nessuna condizione posso essere d’accordo con la vostra opinione, che è sottolineata da una risoluzione, che la sconfitta della Russia sarebbe un “male minore”. Questa opinione rappresenta fondamentalmente una immotivata e ingiustificata concessione alla metodologia politica del socialpatriottismo, che sostituisce alla lotta rivoluzionaria contro la guerra e contro le condizioni che l’hanno generata un orientamento, in una simile situazione estremamente arbitrario, verso la linea del “minor male”.[3]
Non ci soffermeremo a lungo sulla questione della parola d’ordine della «lotta per la pace», ampiamente trattata da Roman Rosdolsky nel primo dei suoi Studi sulla tattica rivoluzionaria. La posizione di Lenin al riguardo è facilmente riassumibile: di quale «pace» si parla? Tutte le potenze dell’imperialismo vogliono la pace, la loro pace. Parliamo di una pace che neghi le annessioni degli altri e che sancisca le proprie, oppure di una pace che neghi le annessioni di tutti i contendenti una volta che le proprie siano andate perdute? Solo quando riterranno che i propri reciproci rapporti di forza siano ormai sufficientemente ridefiniti le borghesie in guerra passeranno alla registrazione di questa ridefinizione: la pace imperialista, la continuazione con mezzi diplomatici della precedente politica imperialista condotta con mezzi militari[4]. La parola d’ordine della «lotta per la pace» che non specifichi quale tipo di pace perseguire, ovvero, nel caso degli internazionalisti, la lotta rivoluzionaria per una guerra civile che ponga fine alla guerra imperialista, è una parola d’ordine che può essere – è stata e sarà – impugnata dai socialimperialisti delle potenze in difficoltà, che può quindi condurre esclusivamente all’unione con gli elementi reazionari in tutti i paesi e che può deviare quel “recupero del senso politico” delle masse proletarie, mobilitate e nelle retrovie, tendente a “farla finita con la guerra” e determinato dalla crescente stanchezza ed avversione nei confronti della guerra stessa.
Trotsky (e con lui Luxemburg) legava poi la presunta necessità della parola d’ordine della pace all’eventualità che la guerra conducesse ad un «esaurimento delle forze morali del proletariato». Fatto plausibilissimo in caso di assenza di una direzione politica rivoluzionaria del proletariato. In linea di massima – e ciò è ancor più vero oggi nell’era atomica –, la guerra può condurre alla comune rovina delle classi in lotta e persino alla distruzione della specie. Tuttavia, è nella crisi capitalistica che si manifesta con la guerra interimperialistica – non nella pace imperialistica, non nella stabilità capitalistica – che si schiude il varco attraverso cui può farsi strada il sovvertimento rivoluzionario. L’alternativa non può essere dunque: “pace o guerra in regime capitalistico”, ma: conclusione rivoluzionaria o catastrofica della crisi del capitalismo.
Per quanto riguarda la «sconfitta della Russia», la risposta di Lenin a Trotsky è circostanziata, pertinente[5] e indubbiamente severa:
[…] Pare a [Trotsky] che augurando la disfatta della Russia si voglia la vittoria della Germania […]. E in questo Trotsky vede «la metodologia del socialpatriottismo»! Allo scopo di aiutare la gente che non ha il dono di pensare, la risoluzione di Berna spiega: in tutti i paesi imperialisti il proletariato deve oggi augurarsi la disfatta del proprio governo. Bukvoed e Trotsky hanno preferito passar sopra a questa verità, e Semkovskij […] ha «spifferato gentilmente»: questo è un nonsenso poiché la vittoria deve per forza toccare o alla Germania o alla Russia. […][6]
Ritenendo che la sconfitta in guerra di un paese belligerante implichi necessariamente la vittoria del paese nemico e che altresì la vittoria di un paese significhi necessariamente la sconfitta del paese nemico, è Trotsky, di fatto, ad operare una «concessione alla metodologia politica del socialpatriottismo», non comprendendo che nella guerra imperialista è possibile ottenere la sconfitta di entrambi i governi per mezzo di una rivoluzione che inizialmente deflagri anche soltanto in uno solo dei due paesi in conflitto. È chiaro che per Lenin le sconfitte del proprio governo in guerra non sono vantaggiose in sé stesse ma in relazione alle possibilità rivoluzionarie che dischiudono, e che soltanto se la rivoluzione proletaria risulta vittoriosa le sconfitte militari del governo borghese possono non trasformarsi automaticamente nella vittoria definitiva, totale, da parte del nemico del proprio governo borghese[7].
Non comprendendolo, Trotsky si mette alla ricerca di una formula che risolva magicamente ogni difficoltà: la «lotta rivoluzionaria contro la guerra». Tuttavia, per Lenin
La «lotta rivoluzionaria contro la guerra» è una semplice frase senza contenuto – una di quelle frasi in cui sono maestri gli eroi della II internazionale – se parlando di questa lotta non s’intende parlare di azioni rivoluzionarie contro il proprio governo anche in tempo di guerra. Per capirlo basta rifletterci un po’.[8]
Una formula indubbiamente corretta dal punto di vista formale, che riassume gli obiettivi dei rivoluzionari in generale, ma che presenta il non lieve difetto di essere estremamente “vaga” ed “evasiva” – per usare le parole di Trotsky – di non costituire in alcun modo un’indicazione politica pratica per il movimento operaio internazionale. Uno schema astratto e indeterminato che non tiene conto della realtà capitalistica, delle concrete differenze esistenti tra i paesi coinvolti nel conflitto a causa dello sviluppo ineguale; del fatto che, se in un paese la borghesia è più forte militarmente, in un altro il partito rivoluzionario è più radicato, ecc., ecc., e che dunque le ripercussioni della guerra non possono avere la stessa intensità e le stesse dimensioni ovunque.
[…] è ridicolo pensare che in guerra e per una guerra bisogna accordarsi «secondo tutte le formalità»: elezioni di rappresentanti, colloqui, firme di patti, determinazione del giorno e dell’ora! Soltanto i Semkovskij possono pensare in questo modo. Una intesa sulle azioni rivoluzionarie, e anche in un solo paese, – per non parlare di parecchi paesi, – è realizzabile soltanto con l’esempio di azioni rivoluzionarie importanti, con l’inizio e lo sviluppo di queste azioni. Orbene, tale inizio, a sua volta, è impossibile se non si vuole la disfatta e se non si coopera ad essa. La trasformazione della guerra imperialista in guerra civile non può essere «fatta», così come non possono esser «fatte» le rivoluzioni: essa si sviluppa da numerosi fenomeni, aspetti, tratti, particolarità multiformi, risultanti della guerra imperialista. E questo sviluppo è impossibile senza una serie di insuccessi e di rovesci militari di quei governi che subiscono i colpi delle loro classi oppresse.[9]
Lo schema astratto della «lotta rivoluzionaria contro la guerra», lungi dal fornire una qualsiasi indicazione politica concreta, presuppone implicitamente l’idea di una simultaneità dell’azione rivoluzionaria che sembra rispondere alla preoccupazione di una rivoluzione che non faccia torto a nessuno; tuttavia, dal momento che le forze rivoluzionarie del proletariato non sono e non possono essere equivalenti ovunque, si tratta nella migliore delle ipotesi di una fantasia utopistica e nella peggiore di una riproposizione mascherata dell’equivoca posizione kautskiana.
La rivoluzione in tempo di guerra è la guerra civile; la trasformazione della guerra dei governi in guerra civile è facilitata da una parte dai rovesci militari (dalla «sconfitta») di questi governi; d’altra parte è praticamente impossibile tendere realmente a questa trasformazione senza concorrere, in pari tempo, alla disfatta.[10] [grassetti redazionali]
Per Lenin la lotta rivoluzionaria contro la guerra ha senso solo come trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, è una lotta per questa trasformazione che non può non «concorrere» ai «rovesci militari» e che, a sua volta, è «facilitata» da questi stessi rovesci. Tale è la tattica del disfattismo rivoluzionario. Una consegna pratica, valida per il movimento rivoluzionario di ciascun paese belligerante, perché se anche dovesse risultare vittoriosa soltanto in alcuni paesi, negli anelli deboli della catena imperialista, laddove riuscisse, spezzerebbe l’intera catena, con ampie probabilità di innescare un effetto domino anche negli altri paesi: una determinata pressione distribuita uniformemente su una superficie estesa non produce effetti significativi, ma se una pressione anche inferiore viene concentrata su un singolo punto, può frantumare l’intera superficie. Per Lenin non è possibile stabilire con certezza e in anticipo l’ubicazione di questo singolo punto, per questo tutti i movimenti rivoluzionari debbono cercarlo nel teatro immediato della loro lotta, nel proprio paese. Da parte sua, il movimento rivoluzionario russo farà di tutto per esercitare la massima pressione sulla sua porzione di superficie.
Nella polemica con Trotsky Lenin si domanda:
E con che cosa dunque ci si propone di sostituire la «parola d’ordine» della disfatta? Con la parola d’ordine: «né vittoria, né sconfitta» (Semkovskij nel vol. 2 delle Izvestia). Ma questo non è altro che parafrasare la parola d’ordine della «difesa della patria»! Questo significa precisamente porre la questione sul piano della guerra dei governi (i quali, secondo il contenuto di questa parola d’ordine, devono restare nella vecchia situazione, «mantenere le loro posizioni») e non sul piano della lotta delle classi oppresse contro i propri governi! Questo significa giustificare lo sciovinismo in tutte le nazioni imperialistiche le cui borghesie sono sempre pronte a dire – e dicono al popolo – che esse combattono «soltanto» «contro la sconfitta». «Il significato del nostro voto del 4 agosto è questo: non per la guerra, ma contro la disfatta», scrive nel suo libro E. David, capo degli opportunisti. I membri del Comitato d’organizzazione, compresi Bukvoed e Trotsky, difendendo la parola d’ordine «né vittoria, né sconfitta», si mettono completamente sul terreno di David![11]
Tuttavia, l’acerrimo critico della posizione di Lenin, Hal Draper, insorge:
Lungi dall’impiegare il “né vittoria né sconfitta” per riassumere la propria politica di guerra, Trotsky lanciò potenti attacchi contro di essa, dal suo punto di vista. Riuscì a farlo senza in alcun modo cadere nel pantano “disfattista” della confusione. Al grido dei centristi “né vittoria né sconfitta” non rispose “dobbiamo desiderare la sconfitta” (come Lenin). Non rispose “dobbiamo desiderare la vittoria” (come i socialpatrioti). Sostenne che la questione stessa era una trappola. “Vittoria o sconfitta” significava: vittoria di un governo sul governo nemico sconfitto, e queste erano proprio le alternative che i socialisti rivoluzionari non accettavano. Perché essi contrapponevano un’alternativa diversa, una terza via: l’utilizzo della crisi di guerra per rovesciare entrambe le classi dominanti.[12]
È difficile comprendere come sia possibile sfuggire ad una «trappola» per mezzo di un’astrazione. Al di là della polemica sulla correttezza o meno dell’attribuzione a Trotsky dello slogan “né vittoria né sconfitta”, un «utilizzo della crisi di guerra per rovesciare entrambe le classi dominanti» che non consideri i «rovesci militari» come una «crisi di guerra» e che non si ponga nell’ottica di contribuirvi è in realtà una «terza via» che somiglia tremendamente alla parola d’ordine dei centristi. Una parola d’ordine che consente a questi ultimi di conservare un’allure rivoluzionaria senza sacrificare i gioielli di famiglia, senza porre l’unica alternativa assolutamente inaccettabile per i socialpatrioti e che può smascherarli: la sconfitta della patria; una parola d’ordine che, di fatto, avvantaggia esclusivamente i socialpatrioti stessi.
Prosegue Lenin
La «parola d’ordine» della disfatta è respinta dagli sciovinisti […] precisamente perché è l’unica e sola parola d’ordine che sia un appello conseguente all’azione rivoluzionaria contro il proprio governo durante la guerra. E senza questa azione, i milioni di frasi rrrivoluzionarissime sulla lotta contro «la guerra, le condizioni, ecc.» non valgono un soldo bucato. […] Gli avversari della parola d’ordine della disfatta hanno semplicemente paura di sé stessi, perché non osano guardare in faccia l’evidentissimo fatto del legame indissolubile esistente tra l’agitazione rivoluzionaria contro il governo e la cooperazione alla sua disfatta.[13]
È solo abbattendo il nemico principale nel proprio paese, nel quadro nazionale, che i socialisti rivoluzionari di un paese possono favorire la caduta di «entrambe» o di tutte le classi dominanti in guerra; e questo abbattimento non può che risultare altamente improbabile se la propria borghesia vince la guerra. Non è possibile rifugiarsi nella scappatoia – definita «terza via» da Draper – della lotta rivoluzionaria contro la guerra e contro tutte le classi dominanti che non tiene conto del corso degli avvenimenti militari e che rifiuta di riconoscere il legame tra questi avvenimenti e la tenuta politica e sociale degli Stati belligeranti.
A questo proposito è estremamente illuminante quanto scrive G. Munis:
… dato il carattere profondamente reazionario di tutti gli imperialismi, la sconfitta della propria borghesia è l’unico contributo che ogni proletariato può apportare alla sconfitta rivoluzionaria della borghesia dell’altro campo imperialista. […] Il mondo attuale rappresenta un’unità contro cui il proletariato non può lottare senza quartiere se non identificandola con la propria particolare borghesia. Ciò di cui il proletariato internazionale ha bisogno e che persegue è la sconfitta della borghesia internazionale; ma la condizione di divisione impostagli dalla società capitalista incanala imperativamente la sua lotta entro i confini geografico-politici di ciascuna nazione. Ciò avverrà finché il proletariato non prenderà il potere. La concezione del disfattismo rivoluzionario identifica il nemico mondiale nel nemico all’interno della propria nazione, che esso deve attaccare a fondo.[14]
Nell’agosto 1915, nel suo opuscolo Il socialismo e la guerra, Lenin conclude:
I sostenitori della vittoria del proprio governo nella guerra attuale, nonché i sostenitori della parola d’ordine “né vittoria né sconfitta”, hanno un punto di vista egualmente socialsciovinista. La classe rivoluzionaria, nella guerra reazionaria, non può non desiderare la disfatta del proprio governo, non può non vedere il legame esistente fra gli insuccessi militari del governo e la maggior facilità di abbatterlo. Soltanto il borghese, il quale crede e desidera che la guerra iniziatasi tra i governi termini assolutamente come una guerra tra governi, trova “ridicola” od “assurda” l’idea che i socialisti di tutti i paesi belligeranti manifestino e augurino la sconfitta a tutti i “propri” governi.[15] [grassetti redazionali]
Nella misura in cui l’indebolimento del proprio Stato in guerra consente di abbatterlo non si «rafforza il militarismo avversario», anzi, la rivoluzione nel paese che subisce i rovesci militari è l’unico modo per indebolire anche il militarismo avversario. Ma per comprenderlo era necessario intendere quale tipo di “sconfitta” avesse in mente Lenin, sulla base dell’esperienza della guerra russo-giapponese e della guerra allora in corso. Evidentemente non si trattava dello stesso tipo di sconfitta ipotizzato da Trotsky, come conseguenza di «vittorie napoleoniche» che, in quel contesto, non si verificarono.
Un’obiezione potrebbe essere quella che porta ad esempio la rapidissima e pressoché incontrastata invasione ed occupazione dei territori dell’ex Impero zarista perpetrata dall’esercito tedesco in concomitanza con le trattative di pace a Brest-Litovsk, nel 1918. Ma questo esempio in realtà non dimostra nulla, poiché furono proprio i rovesci militari nel senso inteso da Lenin a condurre, come previsto ed auspicato, al crollo dello zarismo nel marzo 1917; mentre l’occupazione tedesca, apparentemente l’unico modo di concepire la disfatta per Trotsky nel 1914-1917, avvenne quando il partito bolscevico aveva già preso il potere, e rientrava tra i rischi di una guerra rivoluzionaria che Lenin non aveva mai rimosso dal novero delle possibilità, così come la possibilità di dover scendere a compromessi per salvaguardare il potere rivoluzionario nel caso in cui questo potere non fosse stato in grado di condurre efficacemente tale guerra, come in effetti avvenne. Peraltro, neppure la stessa occupazione tedesca rappresentò una “vittoria totale”. Le armate del Kaiser non giunsero sino a Mosca o a Pietrogrado, e se l’Alto Comando preferì tornare a sedersi al tavolo delle trattative su richiesta della delegazione bolscevica, nonostante i propri inarrestabili successi militari, ciò avvenne evidentemente perché la volontà della borghesia e dell’Alto Comando tedeschi di «puntare le baionette sul petto della rivoluzione appena nata» non risultava prevalente rispetto ad altre considerazioni.
In ogni caso, i termini di quella pace brigantesca saltarono nel giro di otto mesi, sotto i colpi di una rivoluzione tedesca generata anche dalle difficoltà militari della Germania; dimostrando peraltro che la sconfitta russa e la rivoluzione russa avevano prodotto più danno alla tenuta sociale e politica degli Imperi centrali (come dimostra esaustivamente il saggio di Roman Rosdolsky su La situazione rivoluzionaria in Austria nel 1918 e la politica dei socialdemocratici) di quanti vantaggi questi ultimi avessero temporaneamente potuto trarre dalla pace iugulatoria di Brest; dimostrando inequivocabilmente che la “sconfitta” poteva non coincidere con la “vittoria” dell’avversario imperialista.
Nella stessa Germania, la sconfitta militare avvenne in maniera decisamente convenzionale, anzi, con un esercito tedesco in grado di conservare fino alla fine una notevole capacità di combattimento (a differenza di quello russo), e, anche in questo caso, la sconfitta, favorita dalla lotta contro la guerra di un proletariato tedesco rinvigorito dall’esempio russo, aveva alimentato un processo rivoluzionario. Un discorso simile può esser fatto per quanto riguarda l’Austria e l’Ungheria. Non può essere certamente imputato al caso se movimenti rivoluzionari di rilievo, in grado di porre la questione del potere, non si svilupparono in nessuno dei paesi vincitori della guerra, Italia compresa.
Non fu una generica «lotta rivoluzionaria contro la guerra» indifferente agli esiti della vittoria e della sconfitta a condurre alla rivoluzione, laddove essa si verificò; fu al contrario la sconfitta a rappresentarne il volano, sia stata essa il prodotto della lotta di classe “disfattista” o della generale debolezza economica e politica dello Stato sconfitto.
Continua…
NOTE
[1] L. Trotsky, The War and the International, 1914, in http://www.marxists.org/archive/trotsky/1914/war. Nostra traduzione.
[2] Non è da escludersi che anche la valutazione di Trotsky circa la natura della futura rivoluzione in Russia (socialmente proletaria e politicamente ed economicamente socialista, mentre per Lenin il carattere socialista della rivoluzione russa non avrebbe potuto essere esteso ai suoi compiti economici) abbia contribuito ad impedirgli di comprendere appieno la tattica leniniana del disfattismo rivoluzionario: se i compiti della rivoluzione erano gli stessi in Russia ed in Europa non poteva sussistere alcun motivo per considerare la sconfitta russa in ogni caso un “minor male”, e se la tattica era “ingiustificata” anche solo limitatamente alla Russia non poteva certo essere valida a livello europeo.
[3] Cit. in B. Pearce, Lenin and Trotsky on Pacifism and Defeatism, Labour Review, primavera 1961. Nostra traduzione.
[4] «Come ogni guerra è soltanto la continuazione, con mezzi violenti, della politica condotta per lunghi anni – e talvolta per decenni – prima della guerra dagli Stati belligeranti e dalle loro classi dominanti, così anche la pace che conclude ogni guerra non può essere altro che la somma e la registrazione dei reali cambiamenti di forze avvenuti nel corso della guerra e in conseguenza di essa». Lenin, Proposta del Comitato centrale del POSDR alla II Conferenza socialista, febbraio-marzo 1916, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 22, p. 172.
[5] Malgrado ciò che ne potesse pensare Hal Draper, che scrive: «Questo articolo, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, è di per sé il più grande pasticcio di tutti, rispetto al quale i passaggi precedenti erano modelli di chiarezza. Poiché si tratta di un intero articolo che discute del “disfattismo” e quindi sembra essere l’affermazione autorevole sull’argomento per un riferimento pratico, ha indubbiamente svolto un ruolo importante nel disorientare più di uno studioso di Lenin. Va detto, senza la minima esagerazione, che in esso Lenin dà semplicemente di matto, gettando al vento il pensiero chiaro». H. Draper, The Myth of Lenin’s “Revolutionary Defeatism”, http://www.marxists.org/archive/draper/1953. Sarà sufficiente leggere attentamente e senza i pregiudizi dettati dal culto di Trotsky l’articolo di Lenin, di una chiarezza cristallina, per comprendere quanto pretestuose siano le critiche di Draper e chi sia ad aver dato «semplicemente di matto».
[6] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, 26 luglio 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, pp. 249-254.
[7] Nel giugno 2022, a pochi mesi dallo scoppio della guerra imperialista russo-ucraina, la rivista Pagine Marxiste, organo della composita e variopinta galassia opportunista-terzomondista definitasi Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, nell’articolo intitolato Per un intervento internazionalista contro la guerra, affermava correttamente che il disfattismo rivoluzionario «non significa augurarsi la vittoria del nemico del proprio governo» (anche se sarebbe stato ancor più corretto precisare: la sua vittoria “definitiva”) ma ometteva significativamente di specificare che il disfattismo rivoluzionario vuol dire ancor meno augurarsi la vittoria del proprio paese in guerra, anche se “aggredito” e “invaso”, e concludeva che gli ucraini avrebbero dovuto prima cacciare i russi (quindi vincere la guerra) per poi vedersela con i propri “oligarchi”. Delle due l’una: o ci troviamo in presenza di una guerra di liberazione nazionale (cosa esplicitamente negata con l’affermazione secondo cui «l’Ucraina non è un paese arretrato, coloniale o semicoloniale»), e allora il richiamo al disfattismo rivoluzionario risulterebbe superfluo, oppure siamo in presenza di una guerra imperialista su entrambi i fronti, nel qual caso la necessità per il proletariato russo di riconoscere il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina invasa dal proprio governo non altera la consegna di trasformare la guerra imperialista in guerra civile su entrambi i fronti e di certo non può giustificare una posizione da “ante ganar la guerra”, dal momento che ogni guerra imperialista può portare ad invasioni ed annessioni.
[8] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, 26 luglio 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, pp. 249-254.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] H. Draper, Op. cit.
[13] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, 26 luglio 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, pp. 249-254.
[14] G. Munis, Il Socialist Worker Party e la guerra imperialista, novembre 1944, in A.A.V.V., Bagliori nella notte – La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, Roma, 2023, vol. 2, pp. 514-515.
[15] Lenin, Il socialismo e la guerra, luglio agosto 1915, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 125.

