“IMPEDIRE” LA GUERRA O TRASFORMARLA IN GUERRA CIVILE?

PER IL «LETTORE PERSPICACE» – «Genesi e struttura» della tattica leniniana del disfattismo rivoluzionarioIV

Dalla postfazione al testo di Roman Rosdolsky – STUDI SULLA TATTICA RIVOLUZIONARIA, Movimento Reale, Roma, giugno 2025, pubblicata anche in opuscolo.


Il marxismo è critica dell’economia politica borghese proprio perché riconosce che le “categorie economiche”, le «categorie feticistiche del mondo capitalistico contemporaneo»[1], rappresentano rapporti sociali tra esseri umani che si configurano come rapporti tra classi; rapporti che si sono evoluti storicamente, in modo spontaneo, sviluppando perciò un’autonomia dalle volontà e dalla consapevolezza degli stessi attori sociali tale da far sì che questi rapporti si pongano in atto secondo leggi materialisticamente individuabili. Riaffermare la teoria marxista della crisi significa dunque restituirle la sua complessità in quanto crisi della formazione economico-sociale capitalistica, senza banalizzarla in uno schema metafisico che isola artificiosamente la “crisi economica” del capitalismo dalla crisi delle sue sovrastrutture politiche ed ideologiche, e che sconfina spesso in uno sterile riduzionismo meccanicistico tendente a limitare la realtà della crisi capitalistica generale esclusivamente all’uno o all’altro di questi elementi inestricabilmente interrelati.

È certamente in questo senso che Lenin, rifiutando di interrompere il percorso di comprensione scientifica della crisi capitalistica alla progressiva astrazione che conduce alle «determinazioni più semplici», e ripercorrendo invece interamente il viaggio a ritroso sino alla «ricca totalità di molte determinazioni e relazioni»[2], delinea con estrema sinteticità i tre «sintomi di una situazione rivoluzionaria»:

1) L’impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificarne la forma; una qualche crisi negli «strati superiori», una crisi nella politica della classe dominante che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che «gli strati inferiori non vogliano», ma occorre anche che «gli strati superiori non possano» vivere come per il passato; 2) un aggravamento, maggiore del solito, dell’angustia e della miseria delle classi oppresse; 3) in forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali, in un periodo «pacifico» si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi «strati superiori», ad un’azione storica indipendente.[3]

Indubbiamente, giunte al loro stadio supremo, le contraddizioni dell’accumulazione capitalistica che si sviluppano nel contesto del precario equilibrio internazionale tra le potenze dell’imperialismo sul mercato mondiale, trovano nella guerra interimperialistica mondiale la loro massima espressione in quanto crisi della formazione economico-sociale borghese. Ed è la guerra mondiale che, generalizzando in una certa misura le condizioni della crisi in diversi paesi, crea le premesse per la possibilità dell’estensione internazionale di rotture rivoluzionarie, che, seppur possibili anche in un contesto di crisi parziale, rimarrebbero in tal caso con maggiori probabilità localizzate e potrebbero essere riassorbite più rapidamente da una rinnovata stabilizzazione del sistema.

Per Lenin, come per Marx ed Engels, è la crisi del capitalismo, la crisi imperialistica a creare le possibilità di un movimento rivoluzionario di massa. Non è dunque plausibile che un movimento rivoluzionario di massa si sviluppi prima della crisi stessa o che addirittura possa “impedire” che si verifichi proprio la crisi che lo rende possibile.

La lotta rivoluzionaria cosciente contro la guerra, la «guerra alla guerra», ha perciò un significato diverso dalle parole d’ordine dello «sciopero generale per impedire la guerra» e della «rivoluzione come risposta alla dichiarazione di guerra» – parole d’ordine ancora oggi molto in voga presso ambienti che pure si richiamano all’internazionalismo marxista –, e non soltanto per l’ovvia constatazione che se il movimento rivoluzionario non è stato sufficientemente forte da impedire lo scoppio della guerra non può essere sufficientemente forte da rispondervi immediatamente con l’insurrezione.

Sette anni prima che la guerra mondiale deflagrasse, riflettendo sui lavori del Congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale, Lenin scriveva:

Il famigerato Hervé, che ha fatto molto rumore in Francia e in Europa, ha sostenuto su questa questione un punto di vista semianarchico, proponendo ingenuamente di «rispondere» a qualsiasi guerra con lo sciopero e l’insurrezione [come è noto, Hervé diventerà fanaticamente interventista allo scoppio della guerra nel 1914 – N.d.R.]. […] non capiva che la possibilità di «rispondere» alla guerra dipende dal carattere della crisi che la guerra stessa provoca. Da queste condizioni dipende la scelta dei mezzi di lotta, e inoltre questa scelta deve consistere (è questo il terzo punto delle incomprensioni o della stoltezza dell’herveismo) non in una mera sostituzione della pace alla guerra, ma nella sostituzione del socialismo al capitalismo. L’importante non è soltanto impedire lo scoppio della guerra, ma utilizzare la crisi da questa generata per affrettare l’abbattimento della borghesia. Ma dietro tutte le assurdità semianarchiche dell’herveismo si cela una cosa praticamente giusta: dare una spinta al socialismo, nel senso di non limitarsi ai soli mezzi di lotta parlamentari, di sviluppare nelle masse la coscienza della necessità di metodi di azione rivoluzionari in connessione con le crisi che la guerra porta inevitabilmente con sé, nel senso, infine, di diffondere nelle masse una più viva coscienza della solidarietà internazionale degli operai e della falsità del patriottismo borghese.[4] [grassetti redazionali]

Circa un mese dopo, Lenin tornava approfonditamente in argomento:

Il famigerato Hervé sosteneva una posizione quanto mai inconsistente, non riuscendo a cogliere il nesso esistente tra la guerra e il regime capitalistico in generale e tra l’agitazione antimilitaristica e tutta l’attività del socialismo. Il progetto di Hervé – «rispondere» a qualsiasi guerra con lo sciopero e l’insurrezione – rivelava la totale incapacità di capire che l’impiego di questo o quel mezzo di lotta dipende non da una preliminare decisione dei rivoluzionari, ma dalle condizioni oggettive della crisi, sia economica che politica, che la guerra porterà con sé.

Ma se Hervé ha indubbiamente manifestato leggerezza, superficialità e infatuazione per la frase ad effetto, sarebbe stato segno della più grande miopia contrapporgli una semplice esposizione dogmatica delle verità generali del socialismo. […] Con la straordinaria fatuità dell’uomo innamorato di un parlamentarismo stereotipato, [Vollmar] si è scagliato contro Hervé, non accorgendosi che con la sua ristrettezza e aridità proprie dell’opportunismo costringeva ad accettare nell’herveismo una piccola corrente viva, nonostante l’assurdità teorica e l’insensatezza dell’impostazione del problema da parte dello stesso Hervé. Non capita forse che a una nuova svolta del movimento le assurdità teoriche celino una qualche verità pratica? E quest’aspetto della questione, l’invito ad apprezzare non soltanto i metodi di lotta parlamentari, l’invito ad agire in conformità con le nuove condizioni della futura guerra e delle future crisi, è stato sottolineato dai socialdemocratici rivoluzionari, e specialmente da Rosa Luxemburg nel suo discorso. […] Rosa Luxemburg ha proposto emendamenti alla risoluzione di Bebel, e in questi emendamenti veniva sottolineata la necessità dell’agitazione tra la gioventù [un modo per riferirsi ai giovani coscritti senza incorrere nella censura governativa tedesca – N.d.R.], la necessità di utilizzare la crisi generata dalla guerra per affrettare la caduta della borghesia, la necessità di tener conto dell’inevitabile mutamento dei metodi e dei mezzi di lotta a misura che la lotta di classe si inasprisce e che la situazione politica muta. Dalla risoluzione di Bebel, unilaterale e dogmatica, morta, suscettibile di un’interpretazione alla Vollmar, si è così alla fin fine ottenuta una risoluzione affatto diversa. Tutte le verità teoriche sono state in essa ripetute, ad ammaestramento degli herveisti, i quali possono dimenticare il socialismo a motivo dell’antimilitarismo. Ma queste verità fungono da introduzione non alla giustificazione del cretinismo parlamentare, non alla consacrazione dei soli mezzi pacifici, non alla supina acquiescenza alla situazione esistente, relativamente pacifica e tranquilla, ma al riconoscimento di tutti i mezzi di lotta e dell’esperienza della rivoluzione in Russia [del 1905 – N.d.R.], allo sviluppo del lato attivo, creativo del movimento.[5] [grassetti redazionali]

Nel novembre 1914 il marxista russo ha modo di ribadire «il nesso esistente tra la guerra e il regime capitalistico in generale»:

La guerra non scoppia per caso, non è un «peccato», come pensano i preti cristiani (che predicano il patriottismo, l’umanitarismo e la pace non peggio degli opportunisti), ma una tappa inevitabile del capitalismo, una forma della vita capitalistica, legittima come la pace. Ai nostri giorni la guerra è una guerra di popoli. Da questa verità non consegue che si debba seguire la corrente «popolare» dello sciovinismo, ma consegue che le contraddizioni di classe che lacerano i popoli continuano a esistere e si manifesteranno anche in tempo di guerra, anche in guerra, anche in forma militare. […]

Abbasso i pii voti sentimentali e sciocchi sulla «pace a tutti i costi»! Leviamo la bandiera della guerra civile![6] [grassetti redazionali]

Nel febbraio 1922 Lenin ritiene ancora necessario spiegare che

…soltanto un partito rivoluzionario, preparato e sperimentato in precedenza, e munito di un buon apparato illegale, può condurre con successo la lotta contro la guerra, e inoltre, che il mezzo di lotta non consiste nello sciopero contro la guerra, ma nel formare delle cellule rivoluzionarie negli eserciti belligeranti, e nel prepararle ad attuare la rivoluzione.[7] [grassetti redazionali]

Nel dicembre dello stesso anno il dirigente bolscevico aggiunge:

«Risponderemo alla guerra con lo sciopero o con la rivoluzione», dicono di solito alla classe operaia tutti i capi riformisti più in vista. E queste risposte, che in apparenza sono radicali, bastano molto spesso a soddisfare e rendere tranquilli gli operai […].

… dopo la recente guerra, solo degli imbecilli o dei mentitori incorreggibili possono sostenere che una tale risposta alla questione della lotta contro la guerra abbia un valore qualunque. Si dovrebbe affermare che «rispondere» alla guerra con lo sciopero è impossibile, così come è impossibile «rispondere» alla guerra con la rivoluzione, nel senso più semplice e letterale di questa espressione.[8] [grassetti redazionali]

Sia prima del suo scoppio che nel corso del conflitto mondiale, e diversi anni dopo la sua conclusione, Lenin riafferma dunque le indicazioni del Manifesto di Basilea per la lotta contro la guerra: non si tratta di impedire la guerra come promettono «i capi riformisti più in vista» o di riproporre la «vuota minaccia alla Hervé» di “rintuzzare” il fatto compiuto con una impossibile rivoluzione immediata (il «senso più semplice e letterale» dell’espressione: «rispondere»); si tratta invece di utilizzare, sfruttare la crisi capitalistica che si manifesta nella guerra imperialista non per tornare alla precedente condizione di “pace capitalistica”, sul cui terreno germinano “naturalmente”, “inevitabilmente” i semi della guerra, ma per abbattere il sistema capitalistico stesso. Se quelle parole d’ordine potevano ancora possedere una qualche giustificazione in un determinato momento storico, un bilancio dell’esperienza della prima guerra interimperialistica mondiale ed una ricapitolazione dei suoi insegnamenti dal punto di vista della strategia e della tattica rivoluzionarie imponevano di archiviare definitivamente la vana promessa riformista per «soddisfare e rendere tranquilli gli operai» e «l’ingenuo sport antimilitaristico dei semianarchici tipo Hervé»[9] nel cassetto delle illusioni perdute, e, nel caso di una loro riproposizione malgrado il verdetto del banco di prova della storia, di denunciarli come ingannevole e dannosa fraseologia pseudo-radicale.

È possibile riscontrare un esempio di questo genere di fraseologia nell’articolo Impedire la guerra si può, pubblicato su Lotta comunista, n. 655, marzo 2025:

Dove ci stanno portando? È proprio vero che la guerra è inevitabile? No, non lo abbiamo mai pensato: impedire la guerra si può. [grassetti redazionali]

Il lettore di questo articolo a questo punto si domanderà: in che modo? Esistono degli esempi storici in questo senso? La risposta di Lotta comunista arriva immediatamente: se i “giovani” e i lavoratori

…rifiutassero di usare le armi contro altri lavoratori come loro, ma che semplicemente vestono una divisa diversa, e se quelle armi le rivolgessero contro i loro governanti e le loro borghesie, la guerra cesserebbe. Non solo: il rifiuto della guerra potrebbe trasformarsi in una rivoluzione per un ordine sociale superiore senza più classi e senza più guerre. È quanto successe sul fronte orientale della Prima guerra mondiale, dove il conflitto si trascinava da più di tre anni fra combattimenti, morti, diserzioni, ammutinamenti e anche fraternizzazioni fra truppe nemiche. Il partito bolscevico lanciò la parola d’ordine «pace subito» per «trasformare la guerra imperialistica in guerra civile». I soldati russi rifiutarono di continuare a combattere contro i lavoratori tedeschi schierati dall’altra parte, e alla fine la guerra sul fronte orientale fu fermata. [grassetti redazionali]

È qui evidente la mistificazione dell’insegnamento di Lenin. Viene operata un’arbitraria identificazione semantica tra il termine “impedire” e i termini “cessare” o “fermare”. Fermare una guerra che è in corso, farla cessare, non significa impedirla – né in lingua italiana né nella lingua dei marxisti – ed è pertanto fuorviante utilizzare l’esempio della Rivoluzione d’ottobre per affermare che «impedire la guerra si può». Ma, entrando maggiormente nel merito, viene da chiedersi se è poi effettivamente possibile per il proletariato mobilitato anche soltanto fermare la guerra, farla cessare, prima che si scateni una rivoluzione. Dunque, le «diserzioni, ammutinamenti e anche fraternizzazioni» possono fermare la guerra? Oppure possono rappresentare il prologo della sola azione politica che può realmente fermare la guerra su tutti i fronti, ovvero della rivoluzione proletaria internazionale?

Se i governi borghesi che conducono la guerra non sono messi in causa, la guerra non può che continuare, costringendo gli ammutinamenti e le fraternizzazioni che non hanno avuto la loro finalizzazione politica nella marcia sulle capitali, nell’insurrezione, nella presa del potere, a rientrare per mancanza di alternative.

Si vuole con ciò affermare l’inutilità della lotta contro la guerra prima che questa deflagri? Si vuole privare il movimento rivoluzionario della possibilità di intervenire politicamente in presenza di sconvolgimenti che scuotano la nostra classe prima che scoppi una guerra imperialistica mondiale? Indubbiamente no, ma ad oggi i dati dell’esperienza storica affermano incontrovertibilmente che, anche in presenza di rapporti di forza incomparabilmente più favorevoli se commisurati alla sua attuale condizione, il movimento operaio non è mai stato in grado di impedire lo scoppio di una guerra imperialistica mondiale mentre è stato in grado di approfittarne per trasformarla in guerra civile rivoluzionaria. Ed è su questi dati di fatto – non su eventualità che pur non potendosi escludere in assoluto rimangono storicamente indeterminate – che l’analisi materialistica deve soffermarsi e rafforzarsi.

Se allo stato dell’esperienza storica del 1907 non esistevano elementi sufficienti per escludere la possibilità teorica di un’insurrezione proletaria che impedisse lo scoppio della guerra – tanto è vero che Lenin, pur ritenendola una eventualità estremamente remota, non la escluse almeno fino al 1916 – non sarebbe stato ad ogni modo materialistico né politicamente saggio elaborare una strategia rivoluzionaria esclusivamente sulla base di un’eventualità remota e per giunta ottimistica[10].

Ciò di cui Lenin era invece materialisticamente consapevole già nel 1907 è che ipotecare il futuro del movimento operaio internazionale sulla sua possibilità di impedire la guerra mondiale avrebbe creato un’aspettativa sulla cui prevedibile delusione l’opportunismo avrebbe potuto agevolmente confezionare un alibi per la necessità dell’union sacrée. Se non si fosse potuta impedire la guerra, tanto sarebbe valso per il proletariato unirsi alla “propria” borghesia nella difesa delle condizioni di vita garantite in “patria” contro l’aggressione straniera. E così fu.

La strategia della trasformazione della guerra imperialistica in rivoluzione socialista, oltre a rispondere ad una corretta valutazione materialistica del rapporto capitalismo-guerra, modellandosi sullo scenario più probabile – e peggiore – per il movimento operaio internazionale, rafforzava in prospettiva la lotta rivoluzionaria contro la guerra impedendo che si arenasse di fronte allo scoppio della guerra stessa.

Nel 1922, la guerra ormai conclusa da quattro anni aveva dimostrato a sufficienza per Lenin

…quanto la normale organizzazione operaia, pur chiamandosi rivoluzionaria, sia impotente davanti alla guerra che s’approssima.

Bisogna ancora e sempre spiegare a tutti nel modo più concreto come sono andate le cose durante l’ultima guerra e perché non potevano andare altrimenti.

Bisogna spiegare, in particolare, l’importanza del fatto che la «difesa della patria» diviene una questione inevitabile e che l’immensa maggioranza dei lavoratori la risolveranno immancabilmente a favore della propria borghesia.[11] [grassetti redazionali]

In queste poche semplici frasi sono contenuti elementi di fondamentale importanza per comprendere i reali compiti dei rivoluzionari in previsione delle future crisi imperialistiche mondiali.

Contrariamente a quanto hanno tutto l’interesse a sostenere determinate formazioni politiche che abbiamo altrove definito «in avanzato stato di socialdemocratizzazione»[12], una “preparazione” rivoluzionaria che si traduca esclusivamente nel rafforzamento organizzativistico nel contesto di un prolungato e relativamente stabile dominio capitalistico – con tutto ciò che questa prolungata stabilità implica dal punto di vista della pressione e della pervasività delle ideologie borghesi – non può non risolversi in un progressivo indebolimento dell’inquadramento teorico ed in un suo sempre più marcato condizionamento da parte di esigenze organizzative che tendono ad autoalimentarsi costantemente.

È anche per questo che per Lenin le «normali» organizzazioni operaie che abbiano raggiunto una dimensione di massa in una fase pre-critica dell’accumulazione capitalistica, «pur chiamandosi rivoluzionarie», si dimostreranno «impotenti» di fronte alla guerra imperialista assumendo una postura “socialpacifista”, o, peggio ancora, se ne renderanno complici spendendo la propria eventuale influenza opportunista sulla classe operaia per “coprire a sinistra” l’interventismo imperialista.

D’altro canto, anche le organizzazioni autenticamente rivoluzionarie del proletariato, non potendo conservare tale natura se non per mezzo di una capacità di analisi resa effettiva dall’erezione di un saldo cordon sanitaire teorico – che si coniuga inevitabilmente con una dimensione relativamente minoritaria –, al momento dello scoppio della conflagrazione imperialista si troverebbero nell’impossibilità materiale di agire efficacemente per impedire la guerra… e men che meno di «rispondere ad essa con la rivoluzione».

Analizzando la memorialistica dei testimoni diretti, è possibile appurare che nell’agosto 1914 la piccola borghesia, gli strati intermedi e una parte della stessa classe operaia furono trascinate in un clima di frenesia generale in cui diventava possibile dimenticare le distinzioni sociali; un clima in cui prevaleva la sensazione di poter finalmente “deporre le armi” del conflitto tra classi e dell’ostilità tra individui che lacera quotidianamente la società borghese; un clima in cui l’aggressività, socialmente prodotta ed accumulata dal capitalismo ma al tempo stesso condannata dalle leggi e riprovata dalla morale come meschina e antisociale, poteva essere incanalata in un solco accuratamente predisposto dalla classe dominante, sublimata in qualcosa che veniva magnificato da tutti i mezzi di diffusione dell’ideologia borghese come legittimo, nobile, onorevole: l’odio per lo straniero, per il nemico della patria, estraneo ed astratto, disumanizzato e impersonale. 

Si tratta a ben vedere di un processo che da un lato rivela il bisogno dei membri di una società alienata di sciogliersi nella comunità, il bisogno emotivo di liberarsi dal peso dell’isolamento e della conflittualità reciproca che la società divisa in classi riversa sugli individui, e, dall’altro, l’offerta sociale al proletariato di una comunità illusoria, costruita nell’opposizione ad altri segmenti della reale comunità di classe designati ed indicati come “nemici”.

In momenti simili, nella “nazionalità” confluisce l’identità sociale e individuale di ampi strati sociali intermedi, affascinati dalla promessa della fine di una esistenza ordinaria contrassegnata da una tediosa routine, dalla riposante e volontaria subordinazione all’esistenza rigidamente strutturata dell’esercito, che solleva dalle complicate scelte della vita quotidiana.

Indubbiamente, il riflesso ideologico della contiguità sociale della classe operaia con questi strati intermedi – e dell’esistenza di strati privilegiati all’interno dello stesso proletariato – si traduce in un largo coinvolgimento di questi strati di classe in un entusiasmo bellicista che, per quanto possa essere di massa, per quanto le sue dimensioni vengano enormemente amplificate dalla presenza di chiassose minoranze politicizzate e dalle esigenze dello Stato borghese[13], non costituisce un fenomeno generalizzato; ma che, pur non convincendo i larghi strati meno privilegiati del proletariato, contribuisce tuttavia a determinarne la rassegnata passività.

In un simile contesto, anche per gli individui appartenenti ad organizzazioni che si considerano “rivoluzionarie” può risultare difficile non farsi travolgere dall’ondata di entusiasmo, mantenere saldamente la propria rotta “contro la corrente” a cui sarebbe invece tanto facile ed allettante lasciarsi andare, scaricando ogni tensione accumulata in anni o decenni, se non di reale opposizione, quantomeno di marginalità e di isolamento sociale, in una gratificante e commovente resa pacificatrice.

In un tale contesto è possibile mantenere la fermezza dei propri princìpi, non lasciarsi trascinare dal flusso emotivo, soltanto se quei princìpi sono solidamente ancorati ad una teoria rivoluzionaria compresa, assimilata, utilizzata[14]. Ed è inevitabile che “tenere duro” in simili condizioni comporti semmai una marginalità, un isolamento ed un’ostilità sociale persino maggiori che in tempi di relativa stabilità capitalistica.

Continua…


NOTE

[1] G. Lukàcs, Lenin, 1924, Einaudi, Torino, 1970, p. 52.

[2] K. Marx, Introduzione ai Lineamenti fondamentali (Grundrisse), Il metodo dell’economia politica, 1859, Marx-Engels, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1986, vol. XXIX, p. 34.

[3] Lenin, Il fallimento della Seconda Internazionale, maggio-giugno 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, p. 191.

[4] Lenin, Il Congresso internazionale socialista di Stoccarda (I), 20 settembre 1907, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 13, pp. 72-73.

[5] Lenin, Il Congresso internazionale socialista di Stoccarda (II), ottobre 1907, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 13, pp. 81-82.

[6] Lenin, La situazione e i compiti dell’Internazionale socialista, 1° novembre 1914, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, p. 31.

[7] Lenin, La questione della lotta contro la guerra, 4 febbraio 1922, in L’Internazionale Comunista, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 364. È evidente che qui Lenin si riferisce essenzialmente al mito dello “sciopero generale” di matrice anarco-sindacalista.

[8] Lenin, Appunti sui compiti della nostra delegazione alla Conferenza Internazionale dell’Aja, 4 dicembre 1922, in L’Internazionale Comunista, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 365-367.

[9] Lenin, Il Congresso internazionale socialista di Stoccarda (II), ottobre 1907, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 13, p. 83.

[10] Mentre al contrario rimase (e rimane) concreta la possibilità per un movimento rivoluzionario di impedire al proprio paese, per mezzo della presa del potere insurrezionale, di entrare come Stato belligerante in un conflitto già in corso. Un’eventualità che d’altro canto non poteva (e non può) rappresentare altro che uno dei possibili esiti delle ripercussioni locali di una crisi imperialistica mondiale in atto.

[11] Lenin, Appunti sui compiti della nostra delegazione alla Conferenza Internazionale dell’Aja, 4 dicembre 1922, in L’Internazionale Comunista, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 365-367.

[12] «…impedire la guerra si può, ma occorre prepararsi prima della catastrofica rottura dell’ordine». R. Pastorino, Impedire la guerra si può, Lotta comunista, n. 655, marzo 2025, p. 2. Considerato che la guerra imperialistica mondiale è la «catastrofica rottura dell’ordine», prendiamo atto che c’è chi afferma di “prepararsi” ad impedire questa rottura e – dal momento che “impedire la guerra” non può avere marxisticamente altro senso – anche a risolvere rivoluzionariamente la questione del potere prima della rottura dell’ordine imperialistico. È lecito domandarsi se simili affermazioni non rappresentino il riflesso dell’esigenza concreta di non alienarsi strati sociali e ambienti il cui lessico politico è intriso di queste illusioni.

[13] Allo scoppio del Secondo conflitto mondiale tali manifestazioni di entusiasmo risultarono spesso “istituzionalizzate”, furono cioè anche il prodotto di una coreografia imposta attraverso l’azione di partiti-Stato di massa.

[14] In passato si è tentato di spiegare la rigida posizione disfattista di Lenin con la circostanza che egli non poté assistere in prima persona alle esplosioni di giubilo nazionalista verificatesi in Francia ed in Germania nell’agosto 1914; a questo proposito può forse risultare utile rovesciare la spiegazione e chiedersi invece quanto l’aver assistito a queste manifestazioni in prima persona abbia condizionato l’irresolutezza, l’indeterminatezza e persino una certa timidezza politica in sinceri rivoluzionari internazionalisti come Lev Trotsky e Rosa Luxemburg.

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