COMUNISMO E NAZIONALITA’, NAZIONE, NAZIONALISMO

L’esecuzione di Albert Leo Schlageter. 1923

Dall’introduzione al libro di Larisa Rejsner Amburgo sulle barricate, Movimento Reale, dicembre 2023, pubblicato nel n. 115 di Prospettiva Marxista, gennaio 2024.


V

Se dovessimo paragonare la “questione nazionale” ad una bomba, potremmo affermare che il marxismo, contrariamente a quanti ritengono di potersi cavare d’impaccio facendola esplodere, oppure postulando che non esista, si sia sempre posto il problema di disinnescarla.

Da sempre il marxismo si è battuto contro l’oppressione di qualsiasi nazionalità, intesa come comunità etnica e linguistica, anche se non sempre la lotta contro tale oppressione ha significato sostenere la costituzione di tali nazionalità in nazione, ovvero in Stato borghese. La contraddizione è soltanto apparente.

Il principio fondamentale a cui il marxismo ha sempre subordinato la valutazione sull’opportunità di appoggiare o meno le singole lotte per l’autodeterminazione nazionale (ovvero la formazione di nuove nazioni, nuovi Stati borghesi) è quello dell’autodeterminazione di classe del proletariato, ovvero della valutazione circa il significato che tali lotte possono assumere per la lotta del movimento operaio internazionale.

Pur battendosi naturalmente contro ogni oppressione dell’uomo sull’uomo, dunque anche contro l’oppressione delle nazionalità, il marxismo non ha mai ritenuto plausibile che in regime capitalistico tutte le nazionalità oppresse potessero costituirsi in nazione. I comunisti rivoluzionari hanno perciò appoggiato quelle lotte nazionali borghesi che in regime capitalistico avevano maggiori possibilità di realizzarsi, favorendo l’estensione dei rapporti capitalistici, sviluppando il proletariato come classe ed eliminando in una certa misura le ragioni di attrito nazionale tra i proletari delle nazioni oppressive e quelli delle nazionalità oppresse[1]. Di converso, non hanno appoggiato le lotte nazionali di borghesie appartenenti a nazionalità oppresse che le circostanze storiche rendevano incapaci di svolgere un ruolo progressivo e che, proprio in virtù di tali circostanze, prive di ogni autonomia, si prestavano a farsi strumento passivo del gioco reazionario delle potenze borghesi – o feudali – avversarie dei Paesi che le opprimevano. La maturazione imperialistica del capitalismo non ha alterato quest’impostazione del problema nazionale da parte del marxismo, al contrario, ha reso sempre meno politicamente sostenibile, dal punto di vista dell’interesse del movimento operaio internazionale, un appoggio comunista alle cause nazionali. Ciò non mette assolutamente in discussione l’obiettivo comunista dell’abolizione di qualsiasi forma di oppressione nazionale. Nelle condizioni del capitalismo maturato imperialisticamente ed in assenza di forze rivoluzionarie borghesi progressive è però la rivoluzione proletaria a doversi incaricare della soluzione definitiva di un problema che il capitalismo ripropone in continuazione.

Ciò non significa che la rivoluzione proletaria, che giocoforza non potrà verificarsi simultaneamente in ogni angolo del pianeta, non debba riconoscere il diritto borghese all’autodeterminazione – e quindi eventualmente anche quello alla separazione – a nazionalità precedentemente oppresse dallo Stato borghese contro cui la rivoluzione si sia sollevata e su cui abbia trionfato. Tuttavia, tale riconoscimento, sempre sulla base del principio dell’interesse prioritario del movimento operaio internazionale, potrà realizzarsi soltanto nella misura in cui a) il proletariato di queste nazionalità oppresse non sia sufficientemente cosciente della necessità di una federazione rivoluzionaria e sia ancora preda di pregiudizi nazionali che devono essere fugati; b) il proletariato di queste nazionalità oppresse non abbia la forza per imporre la propria volontà alla borghesia nazionale e al tempo stesso lo Stato operaio non sia in grado di far pesare la propria forza sul piatto della bilancia; c) la formazione di uno Stato borghese delle nazionalità precedentemente oppresse non rappresenti un pericolo per l’esistenza dello Stato operaio in quanto tale e per l’estensione internazionale della rivoluzione. Qualora l’ultimo requisito per il riconoscimento dell’autodeterminazione nazionale non dovesse risultare soddisfatto, i primi due passerebbero necessariamente in subordine di fronte alle esigenze complessive della rivoluzione proletaria.

Soltanto l’estensione mondiale della rivoluzione proletaria, la costituzione di una federazione mondiale di Stati operai – o se si preferisce di Communes, di Gemeinwesen –, abolendo tutte le nazioni, ovvero tutti gli Stati borghesi, potrà liberare tutte le nazionalità, tutte le comunità etniche e linguistiche esistenti da qualsiasi oppressione giuridica, politica o culturale; e soltanto la distruzione dei rapporti capitalistici di produzione da parte di questa federazione mondiale potrà condurre all’estinzione dello Stato in quanto tale, dunque anche dello Stato operaio o della federazione mondiale di Stati operai della fase di transizione.

Allo stato attuale, in assenza di una rivoluzione proletaria in corso, in assenza di forze rivoluzionarie borghesi progressive e autonome dal gioco delle potenze dell’imperialismo, la costituzione di nuove nazioni, quindi di nuovi Stati borghesi, è impossibile o reazionaria.

Sarebbe del tutto contraddittorio, dunque, per chiunque si riconosca nell’internazionalismo comunista, battersi per la “salvezza della nazione” borghese, che è poi quanto si prefiggeva la “linea Schlageter” in Germania nel 1923 e che ancora oggi qualcuno ritiene debbano prefiggersi i comunisti. Anche quando si sono battuti per la costituzione di nuove nazioni, in effetti, i comunisti rivoluzionari non hanno mai “difeso la nazione” in quanto tale bensì il contenuto progressivo che la formazione della nazione recava in sé, in funzione della rivoluzione proletaria.

Nella misura in cui questo contenuto progressivo si sia già concretizzato o laddove non abbia possibilità di esplicarsi, i comunisti possono porsi il compito di difendere un determinato territorio, circondato da confini e retto da uno Stato, esclusivamente se si tratta del territorio, dei confini e dello Stato sorti da una rivoluzione proletaria vittoriosa. Nel capitalismo, il proletariato non ha patria e non può difendere ciò che non è suo. Soltanto dopo essersi costituito in nazione, ovvero dopo aver conquistato il potere politico, il proletariato avrà una “patria” da difendere dalla reazione borghese, interna ed internazionale, una “patria” per la quale i comunisti dovranno battersi, consapevoli che la sua unica, autentica “salvezza” risiede nella sua estensione mondiale. Prima di tale rivoluzione, «l’interno di ogni Paese» è soltanto «il teatro immediato della lotta»[2] del proletariato internazionale nonché il primo bersaglio del suo assalto rivoluzionario.

Le considerazioni del settembre 1923 di Jules Humbert-Droz, all’epoca rappresentante del Comintern in Francia, a proposito dei “risultati” internazionali della “linea Schlageter” in Germania, acquisiscono il significato di un’indiscutibile ed inaggirabile conferma di quanto detto:

La tattica seguita dal partito tedesco nei confronti dei nazionalisti […] provoca […] un certo disagio nel partito e nella classe operaia francese. […] Non bisognerebbe che la conquista degli elementi piccolo borghesi nazionalisti si compia a danno dell’appoggio che la rivoluzione tedesca ha nella classe operaia francese. Non c’è dubbio che la tattica del partito tedesco nei confronti dei nazionalisti renda infinitamente più difficile il compito del Partito comunista francese e diminuisce le simpatie delle masse operaie per la rivoluzione tedesca. Esiste una fluttuazione, un’esitazione che potrebbe diventare ostilità se la rivoluzione tedesca dovesse conglobare e arruolare gli elementi nazionalisti estremi. Se una rivoluzione proletaria provocherà l’appoggio delle masse operaie francesi, nella stessa misura un movimento che raccoglie i nazionalisti non può non incontrare la sua opposizione. Credo che il partito sia incapace di risalire la corrente che provocherebbe la grande stampa nella classe operaia contro una rivoluzione inficiata di nazionalismo. […] Certi buoni compagni […] capirebbero senza difficoltà la difesa della patria rivoluzionaria dopo la presa del potere da parte del proletariato; trovano troppo sottile la difesa della patria rivoluzionaria in anticipo, quando è tuttora la patria di Stinnes, governata dalla borghesia.[3]

In altri scritti abbiamo esaminato quale tipo di sconfitta di una potenza capitalistica nel corso di una guerra imperialista possa a nostro avviso riproporre in qualche modo una “questione nazionale” e in che misura il riproporsi di tale questione si inserisca nelle valutazioni tattiche delle forze rivoluzionarie all’interno del Paese sconfitto[4]. Abbiamo affermato che una “vittoria napoleonica” che comporti l’occupazione totale del Paese sconfitto, senza che si siano concretizzate le possibilità di applicazione del disfattismo rivoluzionario e in seguito ad una conseguente sostituzione degli organi politici ed amministrativi del Paese sconfitto con quelli della Potenza occupante, possono mutare esclusivamente l’esplicazione tattica della strategia internazionalista, senza mutare il principio della lotta per la trasformazione della guerra in guerra civile rivoluzionaria, nel quadro di una lotta contro la borghesia autoctona e straniera e della ricerca di un collegamento con il proletariato della potenza occupante (che conserva l’obbligo programmatico di riconoscere l’autodeterminazione della nazione sconfitta dalla propria borghesia).

È evidente quanto sia fuori discussione una qualsivoglia rivalutazione storica della natura e del ruolo della borghesia della potenza imperialistica sconfitta; è evidente quanto sia fuori discussione l’attribuzione a questa borghesia imperialistica di un qualsiasi “ruolo progressivo”, che implicherebbe altresì una regressione dei compiti del proletariato della potenza sconfitta alla realizzazione di una rivoluzione nazionale o democratico-borghese. Una simile ipotesi potrebbe avere una qualche legittimità esclusivamente allorché si sia in presenza non soltanto di una distruzione delle fondamenta industriali della potenza sconfitta ma di un generale regresso dello sviluppo capitalistico a livello globale. Non ci sembra che si tratti della situazione in cui venne a trovarsi la Germania del 1923.

Nel 1923 la prima guerra inter-imperialistica mondiale era finita da cinque anni, la Germania sconfitta non era stata integralmente occupata e le sue istituzioni statali non erano state soppiantate da quelle delle potenze dell’Intesa, l’apparato industriale tedesco era pressoché intatto[5] e il capitalismo mondiale non soltanto non era regredito, ma era anzi in corso la sua espansione globale sotto il segno della maturazione imperialistica.

Nel 1923, se rientrava tra i doveri internazionalisti del proletariato francese quello di riconoscere programmaticamente l’autodeterminazione dei territori tedeschi occupati dalla Francia, di condurre una lotta per porre fine all’occupazione militare, alle prevaricazioni e alle vessazioni della potenza imperialistica francese nei confronti della Germania (essenzialmente in considerazione del fatto che sarebbe stato il proletariato tedesco a pagarne il prezzo), dall’altra parte, il proletariato tedesco non aveva nulla a che spartire con la borghesia di casa propria, che certamente non aveva perso la propria natura imperialistica solo perché cinque anni prima aveva perso la guerra. La lotta del proletariato in Germania doveva svolgersi su due fronti: quello della difesa di classe contro il militarismo della borghesia francese e più in generale dell’Intesa e quello dell’abbattimento della borghesia tedesca, per ottenere il quale, il movimento rivoluzionario avrebbe potuto persino accettare di continuare temporaneamente a sottostare alle clausole di Versailles[6]. L’opzione contraria non avrebbe rappresentato altro che una riproposizione dello schema che la socialdemocrazia tedesca aveva adottato nel corso della Prima guerra mondiale: “prima di tutto” sconfiggere il “nemico esterno”, dunque union sacrée, tregua sociale, ecc. Con l’aggravante che, in questo caso, una guerra o una guerriglia contro le truppe franco-belghe sostenuta dal Partito comunista di Germania non sarebbe stata condotta esclusivamente nell’interesse della borghesia tedesca ma anche in quello dell’incipiente capitalismo di Stato russo in cerca di alleanze.

Uno dei “cavalli di battaglia” propagandistici della “linea Schlageter” avrebbe dovuto consistere nello “smascheramento”, agli occhi delle masse nazionaliste piccolo-borghesi, delle connivenze e degli accordi sottobanco del grande capitale tedesco con la Francia.

Non è compito dei comunisti rimproverare ai capitalisti di essere dei “falsi nazionalisti”, perché, che essi siano o meno “sinceri patrioti”, l’ideologia nazionalista in sé, in quanto insieme di concetti divisivi, particolaristi, eccezionalisti e suprematisti, è totalmente estranea ed ostile alla teoria comunista, e lo è sempre stata, per principio, anche quando la lotta per le nazioni ha goduto dell’appoggio tattico dei comunisti[7]. Finché queste esisteranno, i comunisti dovranno riconoscere le nazionalità, ma il loro obiettivo è l’abolizione delle nazioni in quanto Stati, cosa che rende il comunismo incompatibile con il nazionalismo: un florilegio di declamazioni retoriche a proposito delle nazionalità che in realtà non rappresenta altro che l’esigenza delle borghesie nazionali di dotarsi di Stati e di rafforzarli nell’agone internazionale. Le nazionalità, in quanto prodotto storico, dacché il capitalismo si è impadronito del mondo, non dividono materialmente l’umanità più di quanto facciano i confini di classe. Se la nazione è lo Stato della classe capitalistica, il nazionalismo è l’ideologia con cui la borghesia divide la nostra classe e gli fa combattere le sue guerre per i propri interessi. I comunisti non sono e non potranno mai essere i “veri” salvatori della nazione, ne sono al contrario i distruttori. Hanno dunque perfettamente ragione i nazionalisti borghesi a definire il comunismo come l’antinazione.

Come ebbe a scrivere Amadeo Bordiga nel 1913:

Il clericale è un “falso cristiano”, il nazionalista un “falso patriota”. In linea assoluta può essere vero, ma non deve essere detto in modo da far credere che aspiriamo a essere noi i “veri” patrioti. Noi possiamo bensì dimostrare – anzi lo dobbiamo – che ogni “idealismo” borghese soffre di qualche contraddizione profonda tra i principi filosofici e l’azione politica, valendoci per questo dei risultati della storia e della vita quotidiana; ma la critica vera di quegli idealismi dobbiamo svolgerla basandoci esclusivamente sui principi socialisti, e mostrando come tanto l’azione pratica come le tendenze teoriche di ogni partito borghese contrastano le conquiste del proletariato sfruttato. Quella contraddizione fatale tra la teoria e l’azione serve a dimostrare il carattere artificiale della filosofia borghese, che è lo strumento politico di una difesa di classe, ma non a scovare dei pretesi casi di malafede personale negli avversari, accusandoli di “falso patriottismo” e simili cose. Così la propaganda contro la guerra non deve mirare a dipingere gli imperialisti guerrafondai come “nemici della patria”, ma basarsi sul necessario internazionalismo del movimento operaio; mostrare che il capitalismo si regge sul militarismo sfruttando il sentimento patriottico e nazionale delle masse, e che quindi la lotta di classe ha fisionomia antimilitarista e antipatriottica.[8]

L’ideologia non è una teoria della realtà, è una rappresentazione parziale e mistificata della realtà stessa, è espressione degli interessi della parte privilegiata di una società divisa in classi, utile a mantenere in soggezione la classe dominata e ad edulcorare l’autorappresentazione della classe dominante. Non ha bisogno di essere coerente per servire allo scopo. I comunisti sanno perfettamente che la sola ed unica patria della borghesia è il profitto, e che questo è vero quali che siano le soggettive convinzioni dei rappresentanti politici della classe dominante o delle mezze classi. Il nazionalismo più “radicale” può persino tinteggiarsi di “anticapitalismo”, cionondimeno, la concezione piccolo-borghese del capitalismo non è la stessa del marxismo. Per quanto i “cultori dell’ideale” possano atteggiarsi a disprezzatori di quella venalità che amano identificare con il “materialismo”, o possano persino tuonare contro i “mercanti nel Tempio”, nei fatti, essi difendono e difenderanno, con tutta la violenza di cui sono capaci, precisamente quella società mercantile che i comunisti vogliono abolire. Motivo in più per considerare quella dell’“anticapitalismo” una formula generica ed ambigua, da parte di chi lotta per il comunismo.

continua…


NOTE

[1] Alcune soggettività politiche, che ormai è obsoleto definire “infantiliste”, tendono ancora oggi a falsificare e ad attaccare la politica delle nazionalità di Lenin ed assumono paradossalmente – persino nelle formulazioni e nei toni – le stesse posizioni di uno Stalin quando quest’ultimo, rovesciando grossolanamente i termini della questione, definiva “social-nazionalismo” e “liberalismo” la battaglia internazionalista di Lenin contro lo sciovinismo grande-russo nel Caucaso. Non è una novità che, di fatto, per questo pretenzioso e aggressivo idealismo piccolo-borghese, lo stalinismo, nuovo carceriere della “prigione dei popoli” zarista, sia meno esecrabile dell’odiatissimo ed obbrobrioso Lenin… in sorprendente sintonia con tutta la pubblicistica borghese da un secolo a questa parte.

[2] Cfr. K. Marx, Critica al programma di Gotha, Massari, 2008, p. 59.

[3] J. Humbert-Droz, lettera inviata a Mosca il 6 settembre 1923, riportata in Victor Serge, op. cit., pp. 196-197. Gli omissis sono del curatore del libro, i grassetti sono nostri.

[4] Cfr. Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, Roma, 2023.

[5] Coloro che vorrebbero fare di Lenin un fautore della necessità di una “lotta di liberazione nazionale” tedesca nel primo dopoguerra dovrebbero ricordare che nel maggio 1921 il rivoluzionario russo scriveva: «La storia […] ha preso un corso così originale da generare, verso il 1918, due metà spaiate di socialismo, esistenti l’una accanto all’altra, proprio come due embrioni di pulcini dentro il guscio unico dell’imperialismo mondiale. La Germania e la Russia incarnavano in modo evidentissimo nel 1918 la realizzazione materiale l’una delle condizioni economiche, produttive, economiche e sociali del socialismo, e l’altra delle condizioni politiche». Per chi dovesse eccepire che si faceva riferimento al “lontano” 1918, Lenin aggiunge, riferendosi al presente: «La rivoluzione proletaria vittoriosa in Germania spezzerebbe subito con enorme facilità qualsiasi guscio dell’imperialismo…» Lenin, Ancora sull’imposta in natura, in La costruzione del socialismo, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 139. Persino Radek nel 1919 dovette riconoscere che: «La Germania ha subìto una sconfitta, ma nonostante ciò il suo apparato tecnico e le sue possibilità tecniche restano immense…», K. Radek, Die auswärtige Politik Sowjet-Russlands, citato in P. Broué, op. cit., p. 563.

[6] «Il rovesciamento della borghesia in uno qualsiasi dei grandi paesi europei, quindi anche in Germania, è un tale vantaggio per la rivoluzione internazionale che, per ottenerlo, si può e si deve accettare – se ciò sarà necessario – che la pace di Versailles duri più a lungo. Se la Russia da sola è riuscita a sopportare per alcuni mesi la pace di Brest con vantaggio per la rivoluzione, non è affatto impossibile che la Germania sovietica, in alleanza con la Russia sovietica, sopporti con vantaggio per la rivoluzione che la pace di Versailles protragga la sua durata». Lenin, L’estremismo… op. cit.,p. 87. Se questa valutazione di Lenin era valida nel 1920 – e la necessità dell’accettazione del Trattato verrà messa correttamente in discussione solamente nel periodo in cui l’Esercito Rosso minaccerà l’ordine di Versailles alle porte di Varsavia – a maggior ragione dovrebbe esserlo nel 1923, in un quadro generale di complessiva stabilizzazione della situazione internazionale e in assenza di un’avanzata dell’Esercito Rosso verso la Germania.

[7] Scrive Roman Rosdolsky: «Non furono proprio Marx ed Engels i fondatori di quel metodo critico che per primo ha reso possibile concepire la nazionalità come una categoria non già eterna, bensì storico-sociale, dando in questo modo una base reale al “cosmopolitismo naturale” del movimento operaio?» Rosdolsky aggiunge però, in “risposta anticipata” a chi – per indorare la pillola di una politica socialsciovinista in Medio Oriente – millanta il preteso “internazionalismo genetico” di formazioni sindacal-politiche che organizzano operai di diverse nazionalità [Cfr. https://pungolorosso.wordpress.com/2023/11/09/il-si-cobas-sciopera-venerdi-17-novembre-a-sostegno-del-popolo-palestinese-per-fermare-il-genocidio-a-gaza-nostra-intervista-al-compagno-aldo-milani-coordinatore-nazionale-del-si-cobas/], che non si deve «concepire la tendenza necessariamente internazionalista del movimento di emancipazione proletario come un fatto scontato, predeterminato e non soggetto a nessuno sviluppo storico. La classe operaia, così come può non essere socialista o rivoluzionaria a priori, può non essere internazionalista a priori. Nel proletariato (a meno che non sia corrotto dall’imperialismo) sono dati solo l’istinto rivoluzionario e la simpatia emotiva “per tutti gli oppressi”. E in ogni paese sono necessari un lungo sviluppo e dure lotte ideali perché su tale base si formi un modo di pensare chiaro e conseguentemente internazionalista nel proletariato cosciente da un punto di vista classista.» R. Rosdolsky, Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova, 2005, pp. 253-254. Esattamente le «dure lotte ideali» contro cui oggi si scagliano gli pseudo-internazionalisti della sedicente Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria (sic) per impedire che la base reale di una «simpatia emotiva» verso gli oppressi da parte dei lavoratori della logistica organizzati nel S.I. Cobas si trasformi in autentico internazionalismo.

[8] A. Bordiga, Per l’intransigenza di pensiero, L’ Avanguardia, 5 gennaio 1913.

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