Jabra Nicola – TESI SULLA RIVOLUZIONE NELL’ORIENTE ARABO

Jabra Nicola nel 1944

Da https://web.archive.org/web/20160304053141/http://98.130.214.177/index.asp?p=english_theses-jabre. Traduzione dall’inglese di Rostrum.


È passato un mese esatto dall’eccidio di circa 1.400 israeliani (in gran parte civili) e dal rapimento di circa 270 ostaggi compiuto dalle milizie reazionarie di Hamas e da altri raggruppamenti sotto la sua direzione. Nel corso di questo mese la rappresaglia dell’altrettanto reazionario Stato d’Israele ha portato al massacro indiscriminato di almeno 10.000 civili palestinesi (di cui quasi 5.000 bambini) nella Striscia di Gaza. Nel corso di questo primo mese di guerra sono stati uccisi quasi altrettanti palestinesi che nei conflitti succedutisi dalla Prima Intifada del 1987 ad oggi. Mentre l’esercito e la polizia di Israele hanno arrestato più di 5000 palestinesi in base ai più generici capi d’accusa e li tengono nelle proprie carceri in condizioni bestiali, molti cittadini arabo-israeliani subiscono intimidazioni, violenze e umiliazioni da parte di sionisti fanatici e, in Cisgiordania, diversi lavoratori palestinesi delle campagne sono vittime di spedizioni punitive – spesso letali – di squadracce di coloni israeliani. Per contro, a Gaza, i proletari palestinesi, esasperati dal drammatico peggioramento di una situazione già insostenibile prima del conflitto, sono scesi in strada per protestare contro l’istituzione da parte di Hamas di una tassa sugli aiuti umanitari e hanno condotto azioni di esproprio e di distribuzione di generi alimentari nei magazzini gestiti dall’UNRWA, azioni prontamente represse dalla polizia del partito islamista al potere.

Di fronte a questo ennesimo bagno di sangue proletario in Medio Oriente, tutta una sedicente “sinistra rivoluzionaria” si è schierata “incondizionatamente” con una delle frazioni borghesi in guerra, dunque di fatto con uno degli schieramenti imperialistici contrapposti. A corollario di questa presa di posizione è iniziata a passare di voce la linea generale da utilizzare nei confronti di chi non marcia al passo con i tamburi dello sciovinismo borghese: la fetida e vile calunnia secondo cui i comunisti internazionalisti, negando un ruolo autonomo agli sfruttati palestinesi nel corso di quella che viene definita “resistenza”, rivelerebbero “disprezzo” nei confronti delle masse del “terzo mondo”, “eurocentrismo”, “occidentalismo” o addirittura “razzismo”. A ben vedere, non si tratta d’altro che del più classico “gioco delle tre carte” o, per meglio dire, di una vera e propria truffa interclassista reazionaria. Non potendo parteggiare troppo scopertamente per Hamas, questi soggetti sub-politici cercano di separare concettualmente l’attuale resistenza a Gaza dal suo contenuto e dalla sua direzione, di cui non possono negare la natura reazionaria borghese, inventando una purtroppo ancora inesistente autonomia di classe del proletariato palestinese. Ma c’è di più. I soggetti in questione mantengono il più rigoroso silenzio proprio di fronte alle spontanee manifestazioni del proletariato della Striscia di Gaza che si pongono embrionalmente su un terreno di classe: nella migliore delle ipotesi queste faccende non gli interessano, nella peggiore li imbarazzano, perché sgretolano i loro schemi da “fronte unico nazionale”.

Il nostro invito a tutti gli internazionalisti degni di questo appellativo è quello di non cedere, di non piegarsi davanti alle campagne d’odio di una “sinistra” borghese pronta ad impiegare etichette infamanti e di facile richiamo per creare un clima di ostilità attorno ai rivoluzionari. Riteniamo utile, per rafforzare la determinazione di tutti i militanti rivoluzionari, dare spazio ad una voce che viene proprio da quel mondo arabo-palestinese che solo dei miserabili calunniatori di professione possono accusarci di disprezzare, quella del rivoluzionario internazionalista arabo-israeliano Jabra Nicola.

Nato nel 1912 in una famiglia povera di Haifa, Jabra Nicola lasciò la scuola a 11 anni. Autodidatta, si unì al Partito Comunista di Palestina prima di compiere 20 anni e diventò responsabile del suo giornale clandestino Al-Ittihad (Unità). Quando nel 1939 il Partito Comunista di Palestina staliniano si spaccò lungo linee nazionaliste arabe ed ebraiche, Jabra Nicola rifiutò di aderire all’una o all’altra delle due ali e, dopo essere stato imprigionato dall’amministrazione mandataria britannica tra il 1940 e il 1942, fu reclutato nel piccolo movimento trotzkista di Yigal Gluckstein (Tony Cliff). In seguito allo scioglimento del gruppo alla fine degli anni ’40, Jabra Nicola rientrò nel Partito Comunista Palestinese. Vissuto per molti anni in condizioni di estrema indigenza, in una sola stanza insieme a sua moglie – la militante politica ebrea Aliza Novik –, suo figlio piccolo, sua sorella vedova, il figlioletto di quest’ultima e sua madre malata di cancro, Jabra Nicola si guadagnava da vivere traducendo in arabo romanzi gialli, mentre sua moglie lavorava come inserviente delle pulizie. Dopo il 1962 uscì definitivamente dal PCP e aderì al piccolo gruppo Matzpen (l’Organizzazione Socialista Israeliana – ISO). Nel 1963 fu eletto nel Comitato esecutivo internazionale della Quarta Internazionale, per la quale scrisse molti articoli e pamphlet e tradusse in arabo i classici del marxismo. Posto agli arresti domiciliari nel 1967 dopo la Guerra dei Sei Giorni, nel 1970 lasciò Israele per Londra, dove visse fino alla sua morte nel 1974.

Quello che pubblichiamo in traduzione è un documento di discussione steso nel settembre 1972, non molto tempo dopo la scissione dal Matzpen del gruppo “ISO – (marxista)”, in seguito denominatosi “Lega Comunista Rivoluzionaria” (RCL) e che pubblicava la rivista Matzpen-Marxista. Jabra Nicola, pur opponendosi inizialmente alla scissione, si schierò con l’ISO (marxista). La posizione politica sulla rivoluzione araba, sul sionismo e sul diritto all’autodeterminazione della nazione ebraica espressa nelle Tesi era all’epoca comune sia alla vecchia ISO che al nuovo gruppo. Tuttavia, dopo la morte di Jabra nel 1974, la LCR adottò una linea diversa, molto meno critica nei confronti del nazionalismo palestinese. Nel precisare che termini come “burocrazia” e “bonapartismo”, riferiti alla controrivoluzione staliniana, al capitalismo di Stato e alle forme di dirigismo politico nelle ex-colonie, sono propri di un lessico specificatamente trotskista che non condividiamo, non possiamo fare a meno di notare quanta acqua sia passata sotto i ponti rispetto alle riflessioni di Jabra Nicola. Oggi, chi si sgola nel proclamarsi internazionalista senza esserlo, è lontano anni luce da queste riflessioni; non solo, nella maggior parte dei casi assume le stesse posizioni che ieri erano dogma nel mondo stalinista (autodeterminazione nazionale sempre e ovunque, questione di classe in “secondo piano”, rivoluzione “per tappe”, “nazioni progressiste” contro “nazioni reazionarie” ecc.) ed è pronto a calunniare – ed anche questa è tipica eredità stalinista – i propri irriducibili nemici, gli internazionalisti autentici, provando a tacitare qualsiasi riflessione che tenga conto della complessità del reale, magari persino utilizzando in chiave irrazionalista certa letteratura engagé prodotto del sentimento di rivalsa delle nazionalità oppresse, di cui affermano di sapere tutto. Con buona pace degli spacciatori di poesia, preferiamo rendere disponibili le materialistiche riflessioni di Jabra Nicola, ricordando, con il Lopuchov del Che fare? di Černyševskij, che «la scienza non si scrive in versi».


I. (a) La rivoluzione nell’Oriente arabo non può essere una rivoluzione “democratica” nazionale o borghese, ma una rivoluzione proletaria socialista. Essa è possibile solo come rivoluzione permanente. Senza la conquista del potere da parte della classe operaia, sostenuta dai contadini poveri, e senza l’istituzione di misure socialiste, non si possono assolvere né i compiti democratici nazionali né una rapida industrializzazione per soddisfare i pressanti bisogni economici delle masse.

(b) L’esperienza dei regimi bonapartisti “progressisti” testimonia questo fatto (limiti dell’industrializzazione, fallimento dell’unificazione nazionale, incapacità di condurre una lotta efficace contro l’imperialismo e il sionismo). Tuttavia, i reali mutamenti socioeconomici prodotti sotto quei regimi – in particolare il grado di industrializzazione, la riforma agraria e l’espansione dell’istruzione – pur non essendo affatto sufficienti a soddisfare i bisogni delle masse, hanno rafforzato notevolmente le forze potenzialmente rivoluzionarie (aumentando il numero e il peso del proletariato).

(c) La necessità di una rivoluzione permanente è una conseguenza:

I. del mancato sviluppo di una borghesia nazionale urbana nella società araba pre-imperialista;

II. del completo assorbimento delle tradizionali classi dominanti nel sistema capitalistico mondiale nell’epoca imperialista;          

III. dell’incapacità di quei settori della piccola borghesia che, attraverso il controllo del potere statale, hanno tentato di consolidarsi come borghesia nazionale, di liberarsi dalla forza schiacciante dell’imperialismo e, allo stesso tempo, di mantenere un saldo controllo della mobilitazione di massa contro l’imperialismo.

(d) Pertanto, la lotta contro l’imperialismo – inseparabile da tutte le lotte democratiche – non può che essere una lotta contro tutte le classi e i regimi dominanti esistenti nella regione. Queste classi sono soci di minoranza dell’imperialismo; attraverso di esse l’imperialismo domina la regione e i loro regimi sono la forma politica di questa dominazione imperialista. La lotta antimperialista e democratica è possibile solo come lotta di classe dei lavoratori sostenuti dai contadini poveri contro i proprietari terrieri, le classi clericali compradore e la nuova borghesia nel mondo arabo e contro la burocrazia sionista e i capitalisti in Israele.

2. a) La rivoluzione permanente nell’Oriente arabo può essere condotta alla vittoria solo su base regionale. A causa della disomogeneità dello sviluppo in tutta la regione, è probabile che si verifichino situazioni rivoluzionarie o pre-rivoluzionarie in tempi e in luoghi diversi; ma ogni volta e ovunque si verifichi una situazione di questo tipo, la lotta in quel determinato luogo dovrebbe essere parte integrante della rivoluzione araba nel suo complesso, diretta da una strategia rivoluzionaria per tutto l’Oriente arabo, sostenuta direttamente dalla lotta di massa in tutta la regione, condotta in modo tale da combinarle in un’unica lotta per le esigenze delle masse dell’intera regione che tendono a sollevare la questione del potere in tutto l’Oriente arabo. Solo in questo modo in ogni momento le lotte più avanzate troveranno la massima protezione possibile contro l’intervento degli eserciti degli Stati arabi, dello Stato sionista ed eventualmente dell’intervento imperialista. Solo così la presa del potere in un Paese dell’area potrà diffondersi ed evitare di essere schiacciata dalle forze reazionarie.

(b) Questa unità strategica della rivoluzione corrisponde al più generale compito nazionale della rivoluzione: l’unificazione nazionale araba.

3. Ma la lotta per i compiti nazionali, compresa l’unificazione nazionale araba, non può essere condotta sotto la bandiera del nazionalismo. Il nazionalismo è oggi l’ideologia delle classi dominanti arabe e un mezzo attraverso il quale queste classi manipolano le masse lavoratrici, smorzando la loro coscienza di classe, mistificando la fonte della loro oppressione e deviando la loro indignazione dal vero nemico. Bisogna distinguere tra il significato storico oggettivo di una lotta di massa e le varie correnti ideologiche e teoriche che si contendono la fiducia sociale: la lotta delle masse arabe contro l’imperialismo e il sionismo per l’unificazione nazionale e la fine della dominazione economica straniera è progressista e va sostenuta; ma il nazionalismo come ideologia non può più svolgere alcun ruolo progressista nell’Oriente arabo: esso è reazionario. Tutti i compiti nazionali nell’Oriente arabo possono essere raggiunti solo attraverso la lotta di classe cosciente, e in modo ottimale in unità con le classi sfruttate delle nazioni oppressive, mentre l’ideologia nazionale acceca le masse di fronte alla realtà delle lotte di classe e ai potenziali alleati nella nazione oppressiva.

4. La soluzione del problema delle minoranze etniche e nazionali nell’Oriente arabo sarà un compito centrale della rivoluzione araba vittoriosa, e una politica corretta su tale questione è essenziale non solo per conquistare alla partecipazione attiva nella rivoluzione gli strati sfruttati di queste minoranze, ma anche per educare le masse arabe all’internazionalismo, aiutandole a liberarsi dei pregiudizi razziali e nazionali e dell’influenza delle loro classi dominanti che rafforzano la loro presa su di loro con l’indottrinamento nazionalista. La rivoluzione araba deve riconoscere e difendere i diritti di tutte le nazionalità non arabe dell’Oriente arabo, ossia riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione.

I curdi e i sud sudanesi sono entrambi minoranze nazionali oppresse, oppresse dai regimi nazionalisti arabi in Iraq e in Sudan. Pertanto, gli arabi rivoluzionari devono sostenere incondizionatamente la lotta di queste minoranze per i loro diritti nazionali e il loro diritto alla secessione, se esprimono il desiderio di farlo, in qualsiasi momento.

5. La questione degli ebrei israeliani è diversa da quella dei curdi e del Sudan meridionale. Gli ebrei che oggi vivono nello Stato sionista di Israele non sono oppressi da alcun governo arabo. La loro esistenza entro i confini di questo Stato è il prodotto di un’operazione colonialista sciovinista, realizzata attraverso l’oppressione e l’espulsione dei palestinesi dal loro Paese. Tuttavia, bisogna riconoscere che gli ebrei che vivono in Israele sono diventati una nazionalità, distinta dalla comunità ebraica di tutto il mondo e dall’ambiente arabo che li circonda. Ma l’espressione nazionale di questa nazionalità è stata reazionaria e controrivoluzionaria. Essa ha usurpato la terra palestinese, si è identificata con il sionismo e ha svolto il ruolo di gendarme imperialista contro la rivoluzione araba. Parlare di concedere il diritto all’autodeterminazione a questa nazionalità, in tali circostanze, sembra ridicolo. Una nazione oppressiva non ha bisogno che tale diritto le sia concesso, non soltanto lo ha acquisito, ma lo sta negando ad altri. Né gli israeliani né i rivoluzionari arabi possono combattere o invocare oggi lo slogan dell’autodeterminazione degli ebrei israeliani. I rivoluzionari israeliani devono lottare oggi per l’autodeterminazione degli arabi palestinesi sotto l’occupazione israeliana, per il ripristino dei diritti nazionali dei palestinesi e per il loro ritorno nel loro Paese. Tuttavia, il programma della rivoluzione araba dovrebbe includere una clausola sul diritto all’autodeterminazione degli ebrei israeliani dopo la vittoria della rivoluzione.

Gli ebrei israeliani sono oggi una nazione oppressiva perché costituiscono lo Stato sionista di Israele, che è un avamposto dell’imperialismo nella regione e che svolge un ruolo oppressivo e controrivoluzionario contro la rivoluzione araba. Ma la rivoluzione araba socialista vittoriosa significa la sconfitta del sionismo e il rovesciamento dell’intera struttura dello Stato sionista, la liquidazione della dominazione e dell’influenza imperialista nell’Oriente arabo e il ripristino dei diritti degli arabi palestinesi. In queste circostanze gli ebrei israeliani non costituiranno più una nazione oppressiva, ma una piccola minoranza nazionale nell’Oriente arabo. A quel punto sarà possibile parlare di uguaglianza delle nazioni e del diritto di ogni nazionalità all’autodeterminazione. Il diritto all’autodeterminazione non sarà concesso ad Israele ma alla minoranza nazionale ebraica israeliana sul territorio in cui, dopo il ritorno degli arabi palestinesi nel loro Paese, gli ebrei israeliani costituiranno la stragrande maggioranza.

Il problema posto alla rivoluzione araba è quello del futuro status della minoranza nazionale ebraica israeliana. Si tratta di rispettare i diritti democratici nazionali fondamentali di questa minoranza, ma allo stesso tempo si tratta anche di impedire la creazione di uno Stato separato in grado di servire nuovamente come base per l’esclusività ebraica utilizzata dall’imperialismo. È vero che, dopo la sconfitta dell’imperialismo nell’area a seguito di una rivoluzione vittoriosa, è improbabile che si verifichi una situazione del genere, ma è comunque necessario tenerla in considerazione. Tuttavia, il diritto all’autodeterminazione non significa necessariamente separazione. Significa solo che la decisione di separarsi o integrarsi dovrebbe essere lasciata alla minoranza nazionale interessata e non imposta dalla maggioranza. Né economicamente né politicamente gli ebrei israeliani possono costituire un vero e proprio Stato indipendente e neutrale. Devono essere, economicamente e politicamente, in stretto legame o con lo Stato socialista arabo o con l’imperialismo contro tale Stato. Pertanto, mentre la rivoluzione araba nel suo complesso dovrebbe concedere agli ebrei israeliani il diritto di separarsi, i rivoluzionari ebrei israeliani dovrebbero lottare per l’integrazione nello Stato socialista arabo.

Il compito dei rivoluzionari israeliani e degli arabi rivoluzionari è dimostrare che il futuro democratico degli ebrei israeliani è in contraddizione con il mantenimento del sionismo e che l’unico modo per garantire il loro futuro, anche fisicamente, è che i lavoratori ebrei si uniscano alla rivoluzione araba come parte integrante di essa.

In questo quadro, l’inclusione del diritto all’autodeterminazione degli ebrei israeliani nel programma della rivoluzione araba può contribuire allo sviluppo di una coscienza internazionalista tra le masse lavoratrici israeliane. Negare questo diritto comporterebbe l’ovvio rischio di spingere le masse israeliane sempre più nelle braccia del sionismo.

Lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie delle masse lavoratrici israeliane non avverrà in modo organico. Dipenderà, in primo luogo, dallo sviluppo politico e organizzativo delle forze rivoluzionarie in Medio Oriente e, dall’altro lato, dalla capacità dell’avanguardia rivoluzionaria in Israele di trasmettere il significato e il ruolo politico della lotta.

6. La rivoluzione araba è una lotta politica che ha come obiettivo la presa del potere da parte della classe operaia in tutto l’Oriente arabo. Richiede un grado sempre maggiore di organizzazione delle masse e un livello sempre maggiore di coscienza politica di massa, una varietà di tattiche selezionate e combinate in base alle situazioni concrete: manifestazioni di piazza, scioperi, attività elettorali, lotta armata, ecc. Tutto questo dovrebbe essere dettato da due considerazioni strategiche: una particolare azione tende ad aumentare il livello di coscienza di massa? Indebolisce oggettivamente la capacità di governo delle classi dominanti e dell’imperialismo?

Ciò richiede la formazione di un partito rivoluzionario che lotti contro l’ideologia reazionaria, che contrapponga politicamente il suo programma socialista rivoluzionario ad ogni corrente nazionalista, che sia tatticamente in grado di selezionare e combinare le tattiche e che sia progressivamente in grado di guidare le masse all’azione.

Poiché l’Oriente arabo è un’unità, e poiché le sue dinamiche rivoluzionarie sono indivisibili, l’obiettivo dei rivoluzionari della regione è quello di formare un partito come strumento organizzativo per la rivoluzione in tutta l’area, quindi dovrebbe essere un unico partito rivoluzionario, sulla base di un’unica strategia globale per la lotta rivoluzionaria nei diversi Paesi della regione. Questo è il compito che i marxisti rivoluzionari dell’Oriente arabo devono porsi.

È costruendo il partito rivoluzionario dell’intera regione e dando un autentico orientamento rivoluzionario alle lotte delle masse arabe ed ebraiche – e delle masse di altre nazionalità non arabe – che sarà possibile avere successo nella lotta per un Oriente arabo socialista, contro l’imperialismo, il sionismo e le classi dominanti arabe.

L’ascesa e la sconfitta della resistenza palestinese

I palestinesi sono il popolo arabo che ha sopportato il peso della colonizzazione sionista della Palestina. La loro reazione a questa mostruosa ingiustizia nacque come un fenomeno palestinese distinto, ma non isolato; era interconnessa con la generale reazione araba alla penetrazione dell’imperialismo nell’Oriente arabo.

Uno Stato nazionale palestinese separato e indipendente non è mai esistito nel mondo arabo, nemmeno come unità amministrativa separata all’interno dell’Impero ottomano. La Palestina come unità separata nella sua frontiera conosciuta è una creazione dell’imperialismo britannico e francese dopo la Prima Guerra Mondiale. La lotta dei palestinesi contro il sionismo e l’imperialismo durante il mandato era parte integrante della lotta dell’intero Oriente arabo per l’indipendenza nazionale e l’unificazione nazionale. Non si è mai sviluppata un’identità nazionale palestinese.

Nel 1948 fu creato lo Stato sionista coloniale di Israele, con l’espulsione dei palestinesi dalle loro case. I palestinesi furono dispersi negli Stati arabi confinanti, dove le loro condizioni sociali erano caratterizzate dall’invio nei campi profughi. Sebbene i regimi degli Stati arabi abbiano proclamato la loro opposizione allo Stato israeliano, in pratica non hanno fatto nulla per riconquistare il diritto dei palestinesi alla loro patria. A causa della debolezza politica e dell’impoverimento economico dei rifugiati palestinesi, i regimi degli Stati arabi cercarono di evitare di prenderli in considerazione, trattandoli invece come un fardello imbarazzante ed oneroso.

Quando Nasser salì al potere, il suo tentativo di sostituire contro Israele gli apparati statali alle masse tenne immobilizzati i palestinesi, così come gli egiziani e le altre masse arabe.

Per più di vent’anni le masse palestinesi hanno assistito a tentativi impotenti di “liberazione” senza parteciparvi in alcun modo.

La sconfitta degli eserciti arabi nel giugno 1967 fu un grave colpo e una scossa per le masse arabe. La leadership nasseriana, su cui le masse arabe, compresi i palestinesi, avevano riposto le loro speranze nella lotta contro l’imperialismo e l’Israele sionista, è stata smascherata dalla disfatta e si è dimostrata incapace di guidare la lotta sia contro l’imperialismo sia per riconquistare i diritti dei palestinesi alla loro patria. Di conseguenza, quei regimi furono scossi e sentirono il pericolo di essere rovesciati dalle masse che iniziarono a rendersi conto della loro bancarotta. Così, quando iniziò a svilupparsi un movimento palestinese “indipendente” di lotta contro Israele, esso fu incoraggiato e sostenuto da tutti i regimi arabi, con l’obiettivo (a) di sbarazzarsi della “responsabilità” dei palestinesi, b) di allontanare da sé l’ira delle masse e concentrare la loro attenzione e i loro sforzi sulla “liberazione della Palestina”, e c) di impiegarli come una pedina o come una carta vincente nella contrattazione internazionale con l’imperialismo americano, con Israele e con l’URSS per un compromesso e una soluzione “pacifica” del conflitto arabo-israeliano.

La leadership palestinese, a causa della sua origine di classe e della sua ideologia nazionalista piccolo-borghese, non è stata riluttante, consciamente o inconsciamente, a svolgere questo ruolo e con la sua politica, strategia e tattica ha condotto la lotta alla sconfitta. Non ha riconosciuto in teoria e in pratica la portata regionale (tutto l’Oriente arabo) della rivoluzione. Ha separato la lotta per la “liberazione della Palestina” dalla lotta contro tutti i regimi arabi. Questa leadership non rappresentava alcuna rottura di fondo con il nazionalismo arabo; politicamente, i programmi, le politiche, la strategia e le tattiche dominanti rappresentavano il culmine e il punto morto dell’intera corrente rappresentata dal nasserismo e dal baathismo.

Questa inadeguatezza programmatica non è affatto “accidentale”; essa è un riflesso della borghesia e degli strati superiori della piccola borghesia palestinese, che in tutto il mondo arabo svolgono un importante ruolo economico e politico, ma rimangono ancora subordinati ai gruppi dirigenti già affermati nei Paesi arabi: lo slogan di uno “Stato palestinese democratico e laico” è il riflesso ideologico della loro oggettiva e contraddittoria posizione sociale. Ma da questi strati è stata tratta la maggior parte della leadership e gran parte dei fondi della resistenza.

Il carattere contraddittorio della resistenza ha determinato l’atteggiamento mutevole dei regimi arabi nei suoi confronti.

(a) A causa del suo grado di mobilitazione di massa, della simpatia e del sostegno che ebbe all’inizio tra le masse arabe, essi la temevano e

(b) a causa della sua politica di nazionalismo, della sua lotta “senza classi” e di “non intervento”, potevano usarla per distogliere le masse arabe dalla lotta contro quei regimi;

(c) a causa di quelle stesse politiche, che alla lunga inimicarono le masse arabe e isolarono i palestinesi anche dai loro fratelli giordani, quei regimi si sentirono sicuri di poterla schiacciare non appena la politica internazionale o la sicurezza interna avessero reso auspicabile tale percorso, ed è proprio ciò che accadde. Hussein ha massacrato i palestinesi quando il piano Rogers passò all’ordine del giorno, mentre l’Iraq, l’Egitto, la Siria e tutti gli altri Stati arabi stettero a guardare e le masse arabe erano già inimicate e neutralizzate.

Le ragioni della sconfitta palestinese possono essere riassunte come segue:

(a) l’incapacità della leadership di riconoscere in teoria e in pratica la portata regionale (tutto l’Oriente arabo) della rivoluzione; la separazione della lotta per la “liberazione della Palestina” dalla lotta contro tutti i regimi arabi per una rivoluzione socialista proletaria nell’Oriente arabo nel suo complesso, che sola può sconfiggere l’imperialismo e l’Israele sionista.

(b) L’adozione della teoria della “rivoluzione a tappe” e della teoria delle “contraddizioni primarie e secondarie”, che subordina la lotta di classe per “un certo periodo” all'”unità nazionale” e che considera quindi i regimi arabi e le classi dirigenti arabe come alleati nella lotta contro l’imperialismo e Israele, e non come nemici di classe contro cui lottare e da abbattere.

(c) L’accettazione della teoria del “foco”, che ponendo quasi esclusivamente l’accento sull’aspetto militare della lotta, rifiuta di riconoscere la necessità di un’organizzazione d’avanguardia rivoluzionaria panaraba e di subordinare le operazioni militari alla strategia politica e alla leadership politica. Così questa leadership non ha fatto alcuno sforzo per politicizzare le masse nei vari Paesi arabi e mobilitarle per una lotta rivoluzionaria, non soltanto per la “liberazione della Palestina”, ma per la liberazione dell’intero Oriente arabo dalla dominazione imperialista e dai governanti e regimi arabi attraverso i quali essa domina. La sua enfasi sulla separazione della lotta palestinese da quella locale nei Paesi arabi l’ha portata ad adottare una politica nei confronti delle masse arabe tale da demoralizzare e inimicarsi persino le masse giordane e libanesi, tra le quali agiva e aveva la sua base.

Israele

Lo sviluppo di un movimento rivoluzionario di massa in Israele dipende dall’ascesa della rivoluzione araba, sia politicamente che come forza materiale, cioè dalla crescita di un movimento arabo sempre più credibile che sia effettivamente in grado di imporre la propria volontà, sulla base di un programma assolutamente intransigente verso tutte le istituzioni sioniste e che riconosca i diritti nazionali degli ebrei israeliani. Quest’ultimo punto diventerà significativo in Israele solamente quando un movimento socialista rivoluzionario nei Paesi arabi inizierà a guadagnare influenza di massa, in modo che i rivoluzionari israeliani possano indicarlo come un vero e proprio programma per il quale le masse arabe stanno combattendo.

Non è possibile alcuna lotta in Israele che non sia esplicitamente antisionista. Anche se sotto l’impatto dell’intensificarsi della crisi economica capitalistica mondiale lo sfruttamento dei lavoratori israeliani si intensificherà e il divario economico e sociale tra Ashkenazim e Sephardim tenderà ad aumentare, nessuna lotta puramente economica o politica limitata può portare spontaneamente alla formazione di una coscienza rivoluzionaria tra i lavoratori israeliani. Tali lotte possono farlo solo se vengono presentate come elementi della lotta antisionista. È impossibile combattere il capitalismo in Israele senza combattere il sionismo, perché il sionismo è la forma specifica del dominio capitalista in Israele.

L’ISO (marxista), attraverso un processo di chiarificazione politica, si è fondata sulla chiara prospettiva politica di costruire un partito leninista in tutta la regione; sull’orientamento dell’attività rivoluzionaria in Israele sulla rivoluzione araba e sulla costruzione del partito rivoluzionario della regione come sezione della Quarta Internazionale.

L’ISO ha sviluppato un programma di rivendicazioni democratiche che, nella situazione israeliana, assume un carattere transitorio. Questo programma di desionistizzazione comprende:

(a) l’eliminazione immediata di tutte le leggi, le politiche e le pratiche che conferiscono privilegi agli ebrei, in particolare la legge del ritorno;

(b) l’apertura immediata delle frontiere a tutti i palestinesi sfollati che desiderano tornare e il risarcimento delle perdite subite da tutti coloro che non lo desiderano.

(c) la completa separazione tra religione e Stato.

(d) la costruzione di un vero e proprio sindacato indipendente, basato su comitati di base nei luoghi di lavoro di tutto il Paese, in opposizione allo pseudo-sindacato sionista, l’Histadrut.

Queste richieste generali, se pienamente realizzate, spezzerebbero il dominio del sionismo in Israele. Esse hanno un significato democratico basilare; possono essere collegate a tutte le lotte sociali progressiste per dimostrare che la strada da percorrere in queste lotte dipende dall’intensificazione dell’attacco all’establishment sionista. Non possono essere pienamente realizzate senza il rovesciamento dello Stato sionista e la presa del potere da parte del proletariato.

14.9.72

A. Said (Jabra Nicola)

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