LA FAVOLA DELL’AQUILA, DEL PANDA E DELLA TIGRE


Condividiamo un nostro articolo apparso nel numero 113 della rivista Prospettiva Marxista, settembre 2023


«Se questi popoli sono contro il nemico» disse «non sono forse con noi?». «Non lo sono?» fecero altri con gioia. Per la grande stanchezza Ling Tan sentì le lacrime riempirgli lentamente gli occhi. In tutti quei difficili anni non aveva mai pianto. Aveva visto la distruzione in casa sua e nel villaggio, e dappertutto aveva visto la morte ma non aveva pianto, e si stupì di piangere adesso, sentendo la prima buona notizia che qualcuno gli dava dopo più di quattro anni. «Andiamo» disse al figlio. […] Lao Er era rimasto scettico per tutto il tempo, e avrebbe voluto dire al padre: “È meglio per noi non fare conto sull’aiuto di nessuno. C’è forse gente pronta ad aiutare in cambio di nulla?”. Pearl S. Buck, Stirpe di drago, 1942.

È un principio stabilito che nella guerra di resistenza contro il Giappone tutto deve essere subordinato agli interessi della resistenza al Giappone. Di conseguenza gli interessi della lotta di classe devono essere subordinati agli interessi della guerra di resistenza al Giappone e non essere in conflitto con essa […] L’unità contro il Giappone richiede una politica appropriata, capace di regolare i rapporti di classe, una politica che non lasci le masse lavoratrici senza garanzia sia politicamente che materialmente, e al tempo stesso tenga conto degli interessi dei ricchi, in modo da soddisfare l’esigenza dell’unità contro il nemico. Mao Zedong, Il ruolo del Partito comunista nella guerra nazionale, novembre 1938.

Il Partito socialista si dichiara nuovamente disposto a continuare il suo concorso, senza riserve come senza debolezza né stanchezza, all’opera della difesa nazionale. Esso conosce i lutti, i dolori immensi generati dalla guerra. Sa che possono scomparire dal presente come dalle preoccupazioni dell’avvenire solo se l’imperialismo tedesco viene vinto. […] Dare al soldato la sua piena sicurezza morale, convincerlo con evidenza che nel momento in cui gli si chiede anche la vita per l’ideale e la salvezza comuni, i suoi cari sono fuori dal rischio della miseria; […] prevenire le insufficienze e punire gli errori, senza esitazione, né debolezza, né compiacenza; suscitare ovunque l’energia produttrice di guerra… Risoluzione adottata dal Consiglio Nazionale del Partito socialista francese, luglio 1915.

Un leone, un orso ed un’aquila mettono da parte i propri istinti ferini per soccorrere un mite ma coraggioso panda costretto per lungo tempo a fronteggiare da solo l’assalto di una feroce tigre. Sembra l’incipit di una favola esopiana, ed effettivamente si tratta della fantasiosa quanto frequente rappresentazione della Seconda guerra sino-giapponese: le benevole potenze imperialiste inglese, russa e americana che “difendono” il diritto all’autodeterminazione cinese violato dal Giappone. La realtà è assai meno fiabesca: fu proprio in Cina, nel luglio del 1937, e non in Polonia, nel settembre 1939, che l’energia magmatica generata dall’accumulazione capitalistica mondiale eruppe – nella forma di una crisi bellica –, proprio laddove la crosta dei rapporti tra le potenze dell’imperialismo era più sottile, ovvero lungo la linea di faglia asiatica; fu proprio in Asia, e non in Europa due anni dopo, che ebbe di fatto inizio la Seconda guerra imperialistica mondiale.

Nel quarto decennio del XX secolo la Cina si trovava all’intersezione di molteplici e contrastanti pressioni imperialistiche: l’Inghilterra, la Francia, la Germania, Gli Stati Uniti, l’URSS e il Giappone, da posizioni più o meno consolidate e con alterne fortune, conducevano il loro “grande gioco” su un “continente di mezzo” da poco riunificato sotto un governo nazionalista la cui indipendenza dalle centrali imperialiste e le cui capacità di centralizzazione di un territorio a lungo frammentato socialmente, politicamente e militarmente, in conseguenza della collisione storica con il capitalismo europeo, erano più formali che reali.

Dopo che la grande ondata rivoluzionaria del 1925-27, sorretta dalla potente spinta di un movimento operaio concentrato e combattivo, venne incanalata e liquidata dal Guomindang – non senza il prezioso ausilio delle politiche del capitalismo di Stato russo veicolate da un Comintern stalinizzato –, portando alla decapitazione del movimento operaio organizzato, alla profonda e duratura demoralizzazione politica del proletariato urbano e alla trasformazione del Partito comunista cinese in un partito a base di massa rurale con un programma borghese radicale, il giro di vite della morsa degli interessi imperialistici, rallentato per un istante dal profilarsi di una nuova gigantesca minaccia proletaria contro l’ordine mondiale borghese, tornò a stringersi con rinnovato vigore sulla “libera” Cina del “Generalissimo” Chiang Kai-shek.

Decapitazione di un operaio comunista cinese nelle strade di Shanghai, 1927

Tra le forze che premevano con maggiore aggressività su questa morsa, per impellenti esigenze di ordine economico, oltre che geografico e politico, vi era il Giappone, potenza in formidabile ascesa.

Dopo circa due decenni di frizioni sullo status della Corea, regno tributario della Cina, nel 1894, l’impero del Sol Levante, rigenerato da un trapianto capitalistico che non aveva causato preoccupanti “crisi di rigetto” in un organismo sociale storicamente meglio predisposto ad accoglierlo, era balzato alla gola di un impero cinese il cui orizzonte era da secoli sempre meno “celeste” e la cui omeostatica immobilità era stata dapprima narcotizzata dai fumi mercantili dell’oppio e poi scossa di soprassalto dal piombo dei cannoni inglesi e francesi. La rapida vittoria del Giappone, che gli valse il “possedimento perpetuo” di Taiwan, non fu sufficiente a garantirgli il boccone più ambìto, la Manciuria; ma, come spesso accade nelle bande di predoni, in cui l’ultimo arrivato deve impiegare le sue migliori energie per indebolire una preda sulla quale si gettano prontamente i briganti di più lungo corso, furono Russia, Francia e Germania ad allungare gli artigli sul Nord Est cinese.

La rappresentazione dell’esito della Prima guerra sino-giapponese sulla rivista satirica inglese “Punch

Nel 1905 la guerra russo-giapponese avrebbe visto il Giappone umiliare la Russia sulle spoglie della Cina e affermare la propria influenza sulla Corea, che sarebbe stata formalmente annessa all’impero nel 1910. Al termine della Prima guerra mondiale, benché figurasse come alleata delle potenze dell’Intesa, la Cina dovette rassegnarsi a veder consegnare quei suoi territori fino ad allora sotto amministrazione tedesca, come lo Shandong, al Giappone. Il capitalismo giapponese si era ormai insediato in territorio cinese con le stesse prerogative, con gli stessi diritti “ineguali” rispetto ai cinesi e con gli stessi interessi delle potenze europee, investendo ingenti quantità di capitali nello sfruttamento delle risorse materiali e di lavoro vivo cinesi, impiantando fabbriche sulla costa, penetrando commercialmente, industrialmente e militarmente in Manciuria, territorio ricco di minerali e dalla grande importanza strategica, posto fra il Pacifico Nordoccidentale, la Cina storica e le propaggini orientali del gigante russo.

Nel settembre 1931, l’“incidente di Mukden”, un attentato ferroviario attribuito ad irredentisti cinesi ma in realtà pianificato ed eseguito da vertici militari dell’armata giapponese di stanza in Manciuria, fornirà al Giappone l’occasione per una breve guerra – combattuta anche per i viali di Shanghai – che porterà in tre settimane alla perdita di quattordicimila soldati cinesi – contro tremila caduti giapponesi – e di oltre diecimila civili. Il conflitto si concluderà con l’occupazione dell’intero territorio mancese e con l’instaurazione, nel 1932, dello Stato fantoccio del Manchukuo, a capo del quale verrà insediato simbolicamente l’ex “imperatore bambino” ed ex playboy da café-chantant Pu Yi. Nel frattempo, il governo nazionalista del “modernizzatore” Chiang Kai-shek, che nel 1928, al termine della “Spedizione verso il Nord”, aveva ufficialmente trasferito la capitale della Repubblica cinese dalla settentrionale Pechino alla centrale Nanchino, controllava direttamente solo l’area centro-meridionale del delta del Fiume Giallo, le province del Jiangsu, dell’Anhui, dello Jiangxi, del Fujian e dello Zhejiang – e persino questo controllo si limitava in pratica alle grandi città, ai corsi dei fiumi, alle linee ferroviarie ed alle zone limitrofe – mentre delegava l’effettivo controllo di vaste zone periferiche del territorio ad ex signori della guerra locali, federati a vario titolo con il governo del Guomindang [a]. Il Giappone saprà manovrare abilmente all’interno dei contrasti tra le periferie e il potere “centrale” cinese, stringendo accordi con i poteri locali e favorendo le spinte autonomiste, mentre Nanchino, trascurando persino la cura delle millenarie opere di irreggimentazione delle acque (cosa che provocherà la desertificazione di vaste aree agricole del nord, immani alluvioni, carestie e centinaia di migliaia di morti), impiegherà gran parte delle risorse dello Stato nel rafforzamento ed ammodernamento della polizia e dell’esercito per scopi di repressione interna, uno tra tutti la distruzione delle cosiddette “repubbliche sovietiche” instaurate nelle campagne dello Jiangxi, dell’Anhui, dello Zhejiang e dell’Hubei. Si affiderà, a tale scopo, al consiglio di esperti militari tedeschi come Hans von Seekt e Alexander von Falkenhausen [b], il primo dei quali fu responsabile, al termine della Prima guerra mondiale, della trasformazione dell’esercito tedesco in un esercito professionale di 100.000 effettivi, composto di ufficiali e sottufficiali con elevato livello di competenza ed in grado di rappresentare il nocciolo duro di un esercito di massa, qualora fossero venute meno le limitazioni imposte alla leva dalle clausole del trattato di Versailles.

I generali tedeschi von Seekt e von Falkenhausen e le truppe cinesi addestrate ed equipaggiate dalla Germania

Dal canto loro, le “armate rosse” delle aree “sovietizzate” – pur senza l’ombra di un soviet – trasformeranno propagandisticamente una drammatica “grande fuga” dalle spedizioni di “accerchiamento e distruzione” scatenate dal Guomindang in una trionfale “lunga marcia” mirante ad una ridislocazione tattica nello Shaanxi, nel semidesertico Nord del Paese, per “combattere l’invasore straniero”.

Nel maggio 1931, mentre la “Cina unificata” perde pezzi grandi come la Germania e la Francia messe insieme e abitati da trenta milioni di cinesi, e mentre il Partito comunista cinese è impegnato nella costruzione di una manciata di “repubbliche sovietiche” nelle più remote aree rurali – prive di collegamenti tra loro e con i centri urbani –, le diverse organizzazioni trotskiste cinesi, essenzialmente facenti capo al gruppo de Il Proletario e ad una frazione del gruppo de La Nostra Parola, si unificano nell’“Opposizione di Sinistra del Partito comunista cinese” sotto la direzione di Chen Duxiu, uno dei fondatori del Partito comunista cinese, esecutore suo malgrado delle direttive del Comintern nel fatale biennio 1925-27 ed avvicinatosi nel frattempo all’opposizione rivoluzionaria russa.

Nel giro di poche settimane quasi tutti i dirigenti della neonata Opposizione di Sinistra finiranno nelle carceri del governo nazionalista – non senza essere prima passati per le grinfie della “Gestapo” del Guomindang diretta da Dai Li – dove i sopravvissuti fra coloro che non hanno scelto la via della defezione e dell’accomodamento con il regime, come Zheng Chaolin e Wang Fanxi, rimarranno fino alla fine del 1937.

Chen Duxiu, Zheng Chaolin e Wang Fanxi

Il 7 luglio 1937, una delle innumerevoli ed ormai consuete schermaglie di frontiera tra le truppe cinesi e quelle giapponesi del Manchukuo, passata alla storia come “incidente del Ponte Marco Polo”, a pochi chilometri da Pechino, si trasforma nel giro di pochi giorni in un lunghissimo e feroce conflitto che durerà fino al 1945: la Seconda guerra sino-giapponese. Otto lunghi anni di massacri, devastazioni e carestie che porteranno ad una cifra stimata fra i 14 e i 20 milioni di morti, senza contare le decine di milioni di profughi costretti a spostarsi in massa verso l’entroterra cinese.

Il Ponte Marco Polo

Il 26 luglio prende il via il massiccio attacco del Giappone. Pechino e Tientsin vengono rapidamente conquistate. Il governo nazionalista di Chiang, che da sempre aveva mantenuto oliate le porte girevoli del compromesso con tutte le potenze dell’imperialismo che tenevano il loro stivale in Cina – accordandosi, già all’epoca della “Spedizione verso il Nord” e della coeva repressione del proletariato di Shanghai nel 1927, con l’imperialismo britannico e quello francese – è costretto ad accettare lo scontro con l’impero nipponico, obbligatovi dall’indisponibilità del Giappone a riconoscere nella Cina un’entità nazionale con cui trattare e non una mera espressione etno-geografica priva di qualsivoglia unità politica. Il conflitto inizierà in effetti senza nessuna formale e reciproca dichiarazione di guerra – il Giappone semplicemente romperà formalmente le relazioni sino-giapponesi mentre la Cina dichiarerà guerra solo nel 1941 –, e, per la sua intera durata, Tokyo lo derubricherà ufficialmente come “incidente cinese”; formula strettamente imparentata con le più recenti “operazioni speciali”.

A Shanghai, al largo della quale, nel frattempo, si era posizionata la flotta giapponese, la Cina nazionalista decide di ingaggiare battaglia, probabilmente nel tentativo di coinvolgere direttamente le potenze occidentali dell’imperialismo, che in città avevano i loro insediamenti extraterritoriali. I giapponesi aggirano le Concessioni Internazionali e conquistano la città dopo tre mesi di aspri combattimenti e dopo averla massicciamente bombardata.

Shanghai prima e dopo il bombardamento giapponese

Le potenze occidentali preferiscono non intervenire direttamente, neanche in seguito all’affondamento da parte dei caccia giapponesi, non si sa quanto “accidentale”, della cannoniera statunitense USS Panay, ancorata sul Fiume Azzurro nei pressi di Nanchino. Plastica dimostrazione di quanto questo tipo di “incidenti” scatenino l’indignazione necessaria a trasformarli in casus belli esclusivamente quando ne esistano le condizioni, ovvero qualora gli interessi delle potenze imperialistiche coinvolte impongano di arrivare allo scontro diretto. In caso contrario, ogni “errore” viene generosamente perdonato, ogni siluro, ogni drone impazzito, ogni razzo fuori bersaglio si trasforma in un innocuo fiammifero su una polveriera che si scopre provvidenzialmente bagnata, quale che sia il costo umano di simili “sviste”.

L’affondamento giapponese della USS Panay in una rappresentazione americana

Ad ogni modo, le potenze occidentali manterranno costantemente una presenza militare vòlta ad ammonire il Giappone circa la costante vigilanza sui propri interessi in Cina e sosterranno il governo di Nanchino con ingenti invii di armi, di rifornimenti e soprattutto con prestiti finanziari provenienti dagli USA, dall’Inghilterra e dall’URSS, che, a dieci anni di distanza dal telegrafatissimo voltafaccia di Chiang – il cui prezzo salato era stato d’altro canto pagato prevalentemente dai sacrificabili proletari cinesi – non avrà difficoltà a riconfermare la sua fiducia a buon mercato al governo nazionalista, riconosciuto ancora una volta come l’“unica forza” in grado di tenere in piedi la Cina e di farne un alleato di qualche peso in funzione antigiapponese, in caso di aggressione ad Est. Il 21 luglio 1937 viene firmato un Trattato di non aggressione tra l’URSS e la Cina nazionalista. Ovviamente ciò comporta anche un appeasement del sedicente Partito comunista cinese, diretto da Mao Zedong, con il Guomindang: il 2 agosto 1937 l’Armata Rossa cinese viene legalizzata e, molto generosamente, il PCC riconoscerà nel concretizzarsi del tanto agognato “Secondo Fronte Unito” la possibilità per Chiang Kai-shek di “espiare le sue colpe” [1]. La commovente disponibilità del Partito comunista cinese si estende anche alla politica internazionale, indulgendo persino nell’elaborazione di una graduatoria imperialista misurata sul grado di desiderio di pace delle potenze

Le contraddizioni tra la Cina e certe altre potenze imperialistiche sono passate in secondo piano e si è invece aggravata l’incrinatura fra questi paesi imperialistici e l’imperialismo giapponese. […] la Cina, non solo deve unirsi con l’Unione sovietica, che è sempre stata un’amica fedele del popolo cinese, ma deve anche, per quanto possibile, ai fini della lotta comune contro l’imperialismo giapponese, stabilire rapporti con quei paesi imperialisti che oggi desiderano conservare la pace e sono contrari a nuove guerre di aggressioni. Lo scopo del nostro Fronte unito deve essere la resistenza al Giappone e non la lotta contemporanea contro tutte le forze imperialistiche. [2]

Se a prima vista può sembrare trattarsi di un’abile manovra per “inserirsi nelle contraddizioni nel campo avversario”, ad una lettura più attenta non può non saltare all’occhio, nelle posizioni del PCC, il riflesso degli interessi di potenza del capitalismo di Stato russo – ingombrante ma ancora necessario “protettore” – nel campo delle cui alleanze del momento in politica estera indirizzare il governo cinese. Per l’URSS, nel momento dato, il pericolo viene dal Giappone e dalla Germania, non dall’Inghilterra, dalla Francia o dagli Stati Uniti. Un chiaro messaggio ed un invito a Chiang Kai-shek, che non ha certo bisogno di suggerimenti nel coltivare l’amicizia britannica ma che da anni si giova anche del sostegno tedesco.

Nel dicembre 1937 Nanchino cade, o per meglio dire, viene abbandonata. Alla perdita della capitale seguirà quello che è tristemente noto come lo “Stupro di Nanchino”, diverse settimane nelle quali l’esercito giapponese si macchierà di orrende atrocità sulla popolazione civile, presumibilmente con l’intento di lanciare un terrificante monito contro qualsiasi velleità di prosecuzione della guerra da parte del governo cinese.

La “competizione” tra ufficiali giapponesi nel taglio di teste di civili cinesi a Nanchino riportata sulla stampa di Tokyo nel 1938

La capitale viene trasferita a Wuhan, ma l’esercito cinese, nonostante la vittoria di Taierzhuang – che rimarrà l’unica battaglia di rilievo vinta dalla Cina nel corso della guerra – non è in grado di resistere all’avanzata giapponese, non essendo riuscite le politiche di ammodernamento militare che ad addestrare poche unità d’élite che Chiang Kai-shek preferirà sempre mantenere alle proprie dirette dipendenze piuttosto che sacrificarle nella guerra contro il Giappone. Nell’ottobre 1938 cade anche Wuhan e il governo nazionalista dovrà ancora una volta fare i bagagli per trasferirsi a Chongqing, nel Sichuan, diverse centinaia di chilometri ad ovest nell’entroterra cinese.

Intanto, nel giugno 1938, come misura “tattica” per cercare di rallentare l’avanzata giapponese verso Wuhan e salvaguardare il governo ivi insediatosi, vengono fatti saltare in più punti gli argini del Fiume Giallo:

Theodore White, corrispondente del «Time», riferì sulla devastazione a pochi giorni di distanza: «La settimana scorsa “l’Ingovernabile [il Fiume Giallo] è straripato in tal misura che potrebbe modificare non solamente il suo corso, ma anche quello dell’intera guerra sino-giapponese. Grandi brecce negli argini nei pressi di Kaifeng hanno creato un muro d’acqua dell’altezza di un metro che ha dilagato su un’area di oltre milletrecento chilometri quadrati seminando la morte. Il disastro causato dalle esondazioni del Fiume Giallo consiste anche negli annegamenti immediati, ma soprattutto nel lento cronicizzarsi di certe malattie e nella prolungata situazione di penuria e carestia. La sporcizia depositata dal fiume ricopre progressivamente i campi con uno strato di una decina di centimetri che alimenta i germi e soffoca le coltivazioni. La settimana scorsa, circa cinquecentomila contadini provenienti da duemila comunità hanno atteso la salvezza o la morte su qualche striscia di terra non ancora sommersa». […] Alla fine, cinquantaquattromila chilometri quadrati della Cina centrale erano stati inondati. […] Nelle tre province interessate – Henan, Anhui e Jiangsu –, i numeri indicavano 844.489 morti e circa 4,8 milioni di profughi. Studi più recenti forniscono cifre inferiori, ma continuano a stimare in cinquecentomila i decessi e in tre-cinque milioni i profughi. I pur devastanti bombardamenti aerei [giapponesi] di Chongqing del 1939 causarono la morte di qualche migliaio di persone. [3]

Per Chiang Kai-shek e per il suo Stato Maggiore il sacrificio di mezzo milione di vite per rallentare – si badi bene, rallentare, non arrestare – l’inesorabile avanzata nipponica su Wuhan era un prezzo “accettabile” per permettere al suo governo di levare le tende con più comodità, per ottenere il misero vantaggio tattico di una manciata di mesi. Per anni, nel corso della guerra e in seguito, le responsabilità del disastro verranno attribuite ai giapponesi, assecondando la versione del Guomindang e ritenendosi universalmente implausibile che una simile enormità fosse stata perpetrata dalla “resistenza” nazionale.

Nulla di eccessivamente sorprendente, in realtà. Piuttosto, una storica demistificazione dell’insidiosa e ipocrita retorica borghese della difesa della patria come “difesa delle proprie case e del proprio territorio dallo straniero”. La distruzione degli argini del Fiume Giallo è una tragicamente chiara dimostrazione di come le guerre borghesi non siano mai combattute dalle classi subalterne per la difesa della propria casa o del territorio ma di come siano sempre combattute per la difesa di un potere, un potere di classe, il potere della classe dominante. Anche oggi, copiosi fiumi di inchiostro straripano quando gli argini alla retorica bellicista vengono fatti brillare, liberando l’impeto degli interessi imperialistici. Ne abbiamo avuto un abbondante assaggio nel corso dell’attuale conflitto russo-ucraino, durante il quale la panzana della “difesa delle proprie case” condotta dal “popolo in armi” si scontra quotidianamente con l’amara realtà di una guerra imperialistica in cui gli obiettivi tattici e strategici degli Stati Maggiori, su entrambi i lati del fronte, non possono tenere nel minimo conto la salvaguardia dell’integrità dei quartieri e delle abitazioni dei proletari coinvolti nel conflitto, per non parlare della sacra inviolabilità di un “territorio” ucraino messo all’incanto in favore dei più rapaci gruppi mondiali dell’agroalimentare. Una squallida panzana borghese, dunque, atta a scuotere emotivamente e a fanatizzare le vittime della guerra borghese e gli assetati tracannatori della propaganda di guerra in ogni angolo del pianeta; ed alla quale anche i socialimperialisti nostrani hanno ritenuto “opportuno” dare credito, giurando e spergiurando sul marxismo e sull’internazionalismo proletario mentre indossavano la divisa “popolar-resistenziale”.

L’estensione dell’esondazione artificiale del Fiume Giallo e i profughi sopravvissuti

Alla fine della prima ondata dell’attacco giapponese, Tokyo controllerà pressoché tutta la zona industrializzata della Cina nonché le aree di maggiore fertilità e coltivate con metodi più moderni. Nella Nanchino occupata, nell’ambito del progetto imperialistico giapponese di coinvolgere controllabilissime forze “nazionaliste anti-occidentali” nella cosiddetta Area di co-prosperità della grande Asia orientale, sorgerà un “governo Quisling” cinese guidato da Wang Jingwei, ex dirigente a Wuhan del Guomindang “di sinistra” con il quale, nel 1927, l’URSS aveva costretto il giovane Partito comunista cinese ad un matrimonio forzato in funzione anti-Chiang, prima che venisse prevedibilmente e immancabilmente ripudiato e massacrato. Se da un punto di vista meramente geografico l’area sotto il controllo nazionalista risultava più vasta, va però evidenziato che si trattava di un territorio prevalentemente semidesertico, montuoso, meno densamente abitato, generalmente privo di industrie e di infrastrutture moderne. Ad un certo punto verrà occupata anche Canton, l’unico porto rimasto libero sul Mar Cinese Meridionale, e i rifornimenti al governo nazionalista saranno costretti a percorrere la “strada della Birmania”, sotto controllo britannico. Nel 1940 il Giappone reclamerà dall’Inghilterra la chiusura del passaggio birmano e l’impero di Sua Maestà acconsentirà, almeno per un breve periodo, di fronte alla imminente possibilità di un’invasione tedesca delle isole britanniche e all’impensabilità per il momento dell’apertura di un nuovo fronte in Asia. Tuttavia, i rifornimenti alla Cina non saranno interrotti e verranno trasportati per via area sorvolando la cosiddetta “gobba”, ovvero le pendici orientali dell’Himalaya. Si trattava di un percorso difficile e pericoloso per i mezzi aerei dell’epoca, e che all’inizio non sarà in grado di coprire le quantità di rifornimenti precedentemente trasportati via terra.

Gran parte dei prestiti e degli investimenti delle potenze occidentali verranno dirottati per arricchimento personale da funzionari politici e militari di vario livello e grado di un governo nazionalista solo parzialmente e formalmente centralizzato, roso da una corruzione dilagante che gli stessi osservatori statunitensi non potranno esimersi dal rilevare. Anche per quanto riguarda la conduzione della guerra, troppo spesso i comandanti dell’esercito nazionalista gestiranno le operazioni militari tenendo conto essenzialmente dei propri interessi locali di potere.

I rapporti di Chongqing con Washington verranno mantenuti per mezzo del generale Claire Chennault, fautore in Cina di una guerra incentrata sull’utilizzo dell’aviazione, e tramite il generale Joseph “Vinegar” Stilwell, fautore invece di una guerra di fanteria, condotta da un esercito nazionalista completamente riorganizzato e posto sotto il suo comando supremo. Comando cui non perverrà, se non formalmente, che alla fine della guerra, poco prima di essere richiamato in patria per i suoi contrasti con Chiang Kai-shek. Tra le forze militari da ricondurre sotto il comando unificato americano avrebbero dovuto figurare anche le armate del PCC che continuavano ad intraprendere azioni di guerriglia nel Nord, a ridosso della Manciuria. A Yan’an, nello Shaanxi settentrionale, era insediato il quartier generale delle truppe “comuniste” di Mao, uno Stato a tutti gli effetti, in alleanza guardinga e circospetta con il governo di Chongqing. Tuttavia, le operazioni delle “armate rosse” di Mao saranno sempre di dimensioni limitate e di scarsa rilevanza per l’andamento complessivo della guerra, svolgendo più che altro un ruolo di contenimento delle armate giapponesi nella loro avanzata ad ovest lungo il fronte settentrionale, senza peraltro scalzarle dalle posizioni acquisite dal 1937.

Con la stipula del patto Molotov-Ribbentrop la coreografia della giga imperialista delle alleanze in Asia si fa più complicata. La Germania si avvicina ulteriormente al Giappone e ritira dalla Cina i suoi consiglieri militari, l’URSS, che dal 1937 al 1939 è alleata della Cina nazionalista, dopo la vittoria contro il Giappone nella circoscritta battaglia di Khalkhin Gol, in Mongolia [4], e la sigla del patto di non aggressione con la Germania di Hitler, si ritiene coperta sia sul lato orientale che su quello occidentale. Nell’aprile 1941 l’URSS e il Giappone firmano a loro volta un patto di non aggressione che reggerà fino al 9 agosto del 1945, il giorno stesso dello sganciamento della seconda bomba atomica su Nagasaki. Il sostegno dell’URSS a Chiang Kai-shek si allenta, pur non venendo mai completamente meno. Ciò, naturalmente, non sarà privo di ripercussioni sui rapporti tra il Guomindang e il PCC, alle truppe del quale verrà fatto divieto armato di oltrepassare verso sud il Fiume Giallo. Frattanto, nel settembre 1939, la guerra imperialistica mondiale si è allargata all’Europa. L’URSS e gli USA, i cui interessi sono già coinvolti nella guerra in Asia orientale, restano inizialmente fuori dallo scontro bellico. Nel giugno del 1941, la Germania rompe il patto del 1939 e invade l’URSS, mentre in dicembre, il Giappone, sotto il pesante attacco delle sanzioni e dell’embargo statunitense su petrolio e acciaio, e giunto ormai alla conclusione che ogni estensione delle sue operazioni sul Pacifico condurrebbe inevitabilmente allo scontro con gli USA, decide di giocare d’anticipo e bombarda a sorpresa la flotta americana ancorata a Pearl Harbor.

Con il passaggio ad una guerra guerreggiata direttamente da parte delle potenze i cui interessi imperialistici fino a quel momento si erano scontrati prevalentemente tramite guerre “per procura”, la subordinazione della Cina agli interessi imperialistici statunitensi accelera vertiginosamente il passo. A suggello di questa subordinazione l’esercito cinese viene “convinto” ad impegnarsi non sulla linea del fronte orientale bensì in Birmania, dove viene impiegato nel tentativo di respingere la minacciosa avanzata dei giapponesi verso il gioiello della corona imperiale britannica: l’India.

Dal momento che da quasi un secolo gli interessi imperialistici occidentali maggiormente presenti in Cina erano quelli britannici, l’ascendente potenza statunitense, proiettata sul Pacifico, si trova ad assumere in Asia – ed anche contro l’Inghilterra stessa – quel ruolo che tradizionalmente l’Inghilterra gioca in Europa: una politica di bilanciamento che impedisca o rallenti la formazione di una potenza egemone sul Pacifico occidentale, che si tratti dell’Inghilterra, del Giappone, dell’URSS o della Cina. Non è un caso se fino alla fine gli USA saranno restii ad intervenire direttamente sul teatro di guerra cinese. Per la potenza imperialistica statunitense, quello accordato alla Cina sarà sempre un sostegno condizionato: la Cina deve “tenere occupato” il Giappone, senza cacciare fuori dal suo territorio un esercito occupante di 600.000 soldati che potrebbe essere altrimenti reimpiegato in altri teatri del Pacifico.

Le “Tigri Volanti” cinesi, addestrate da piloti dell’aviazione statunitense, Kunming, 1942

L’Inghilterra d’altronde cerca di difendere i propri interessi consolidati in Cina sia dall’espansionismo giapponese che da un eventuale rafforzamento del governo nazionalista cinese. La politica degli Stati Uniti in Cina, coerentemente con il suo obiettivo strategico di fondo nel corso dell’intera Seconda guerra mondiale, sarà invece anche quella di indebolire l’influenza del suo “alleato” britannico.

Nel corso della guerra gli USA riusciranno a “promuovere” la Cina – ben al di là delle sue reali possibilità economiche, sociali e politiche – cooptandola al tavolo delle grandi potenze Alleate, certamente non in considerazione dell’altissimo tributo di sangue versato nel conflitto ma precisamente in contrapposizione agli interessi dell’Inghilterra. Non è un caso se Churchill definirà tale cooptazione come una “smanceria”.

È innegabile che la Cina rimanga, malgrado il suo diretto coinvolgimento nella guerra, oggetto e non soggetto della contesa imperialistica: oggetto della spartizione in sfere d’influenza tra Inghilterra e Giappone; oggetto in quanto Stato-cuscinetto dell’URSS in funzione antigiapponese[5]; oggetto in quanto strumento della politica di bilanciamento degli USA[6]. La guerra della Cina non possiede dunque nessuna autonomia, nemmeno nei primi quattro anni di guerra in cui le sue armate sono le sole a combattere contro il Giappone. D’altro canto, l’impiego prevalente o totale di truppe autoctone per fronteggiare un conflitto sul proprio territorio non implica necessariamente che esso venga combattuto in maniera indipendente dalla dinamica imperialistica e dagli interessi delle potenze dell’imperialismo. Abbiamo avuto modo di constatarlo anche nelle recenti ed ancora in corso “Proxy War” imperialistiche. Persino la data ufficiale della conclusione della Seconda guerra sino-giapponese, che sancirebbe la “vittoria” della Cina sul Giappone è significativa: essa coincide infatti con la fine della guerra del Pacifico tra USA e Giappone, a evidenziare la totale subalternità e dipendenza del teatro di guerra cinese dallo scontro interimperialistico mondiale.

La Seconda guerra sino-giapponese è quindi inestricabilmente legata alla dinamica dello scontro tra le potenze dell’imperialismo, e in tal senso essa rappresenta parte integrante della Seconda guerra mondiale fin dal suo deflagrare. Questa è peraltro la valutazione di ristrettissime minoranze all’interno del trotskismo cinese, che, nel maggio del 1941, dopo 10 anni di lotte sotto il filo dell’ascia bipenne del nazionalismo e dello stalinismo maoista, proprio sulla valutazione dei compiti politici dei rivoluzionari nel corso della guerra contro il Giappone, si scinderà. La maggioranza del partito trotskista seguirà la linea di Peng Shuzhi, favorevole ad un sostegno condizionato alla “guerra di resistenza”. Per i seguaci di Peng la formula “abbasso il Guomindang” deve essere abbandonata e la guerra deve essere appoggiata, seppure con “critiche nei confronti delle tendenze compromissorie della sua direzione”. Inizialmente l’opposizione a questa linea è divisa; la maggioranza tra gli oppositori sostiene che, fino alla fine del 1940, la guerra difensiva della Cina contro l’aggressione giapponese conservava una natura progressiva ed antimperialista che si inseriva nel quadro della rivoluzione democratico-borghese cinese, ma che ormai è prevedibile che essa venga risucchiata nel vortice imperialista della guerra mondiale di cui andrà a costituire solamente un fronte. La posizione di minoranza, all’interno della minoranza dell’opposizione, è quella di Zheng Chaolin, il quale ritiene invece che la Seconda guerra sino-giapponese sia stata un’articolazione della guerra mondiale imperialista fin dall’inizio, prima ancora che il confronto bellico tra interessi imperialistici contrapposti si estendesse all’Europa.

Come scrive Zheng Chaolin

… la guerra sino-giapponese e la guerra mondiale non sono intrecciate solo da quando i cannoni hanno iniziato a tuonare anche nel Pacifico, né solo da quando recentemente gli Stati Uniti hanno espresso la loro intenzione di far tuonare i loro; è stata parte della Seconda guerra mondiale da quando questa [la guerra sino-giapponese] è scoppiata. La capacità della Cina di sostenersi per tre anni e mezzo [dal luglio 1937 al febbraio 1941, quando Z. C. scrive questo articolo] sarebbe inspiegabile se non si spiegasse con l’appartenenza a uno dei campi imperialisti…[7]

E il rivoluzionario internazionalista cinese, polemizzando con il carattere di prescrizione assoluta attribuito alla tesi circa la necessità per i rivoluzionari di appoggiare le guerre di liberazione nazionale dei paesi coloniali e semicoloniali, fornisce quella che dal punto di vista marxista rappresenta un’importante precisazione nonché una feconda messa a punto:

… la progressività di una guerra coloniale è relativa e condizionata, la prima condizione è che non sia parte di una guerra imperialista.[8]

Per Zheng infatti

… l’attuale guerra tra Cina e Giappone non è una guerra separata di paesi coloniali oppressi contro i loro oppressori, ma è stata parte della guerra imperialista fin dall’inizio e […] i due belligeranti hanno combattuto come membri di uno dei due campi imperialisti fin dall’inizio.[9]

Ed effettivamente la Cina di Chiang Kai-shek non sarebbe stata in grado di resistere – e non avrebbe avuto nemmeno l’interesse a farlo, tanto è vero che Chiang tenne perennemente aperti i canali di una possibile mediazione durante tutto il conflitto – se non avesse goduto in varia misura del sostegno materiale delle potenze rivali del Giappone.

In seguito all’attacco di Pearl Harbor le due opposizioni trotskiste riterranno che le proprie rispettive posizioni siano giunte a convergere, concordando entrambe su una tattica apertamente disfattista rivoluzionaria e dando vita alla Lega comunista di Cina (Internazionalista). Per la maggioranza di Peng Shuzhi, in linea con le direttive della Quarta Internazionale che inquadravano sostanzialmente quella cinese come una “guerra di liberazione nazionale” dal contenuto “progressivo”, la guerra rimaneva una guerra “giusta”. Era la sua direzione da parte del Guomindang di Chiang Kai-shek ad essere “sbagliata”, per cui non bisognava ostacolare lo sforzo bellico del governo nazionalista ma semmai “correggerlo”, con l’obbiettivo di “trasformare la guerra in rivoluzione” non mediante l’opposizione alla guerra stessa ma al contrario “approfondendola”. Di fronte al ricorso feticistico all’autorità di Trotsky da parte della maggioranza “difesista” Zheng Chaolin risponde

… perché il compagno Trotsky non ci ha istruito prima sulla via del disfattismo? Questa domanda sarà certamente posta da coloro che pensano che sia più importante che la nuova politica sia in linea con quanto detto dal compagno Trotsky piuttosto che essere in linea con le esigenze oggettive [10]

… affibbiando un poderoso colpo di staffile al tentativo di vincolare la dinamica storica entro schemi e di “mettere le brache” alla realtà, pratica quantomai estranea al marxismo, che se è veramente tale non può mai sentirsi a disagio di fronte al mutamento, nel rapporto con un divenire che è invece il suo elemento e che non può avere il timore di affrontare continuamente con i suoi strumenti concettuali e metodologici. Una tendenza a rimanere prigionieri di schemi precostituiti che purtroppo coinvolgerà parzialmente – seppure con minore gravità – anche le minoranze trotskiste internazionaliste, che non riusciranno a emanciparsi completamente da un linguaggio e da taluni schemi concettuali mutuati dal trotskismo. Lo stesso Zheng Chaolin, nel corso della guerra, continuerà a ritenere valida la posizione della “difesa dell’URSS”, pur assumendo coerentemente una posizione disfattista rivoluzionaria e rifiutando energicamente qualsiasi difesismo per quanto riguardava gli altri fronti della guerra mondiale, compreso quello cinese. Sarà proprio la riflessione sulla natura sociale dell’URSS – a sua volta innescata dalla flagrante evidenza della politica di potenza russa nella guerra imperialista –, pochi anni dopo, a condurre il rivoluzionario cinese a comprendere pienamente la tragica erroneità della posizione assunta dalla maggioranza della Quarta Internazionale nel corso della Seconda guerra mondiale. Quasi contemporaneamente, in Messico, ad un oceano di distanza, la manciata di militanti trotskisti raccolta intorno a G. Munis perverrà a conclusioni molto simili, a conferma del fatto che – parafrasando Amadeo Bordiga – l’internazionalismo (che non può essere cosa diversa dal bolscevismo cui si riferiva il rivoluzionario napoletano) è «pianta d’ogni clima».

Una delle argomentazioni dell’ala maggioritaria del trotskismo cinese, che ritorna assai spesso nell’armamentario dell’opportunismo – la cui connotazione è principalmente l’incapacità di concepirsi come minoranza controcorrente, o anche soltanto il timore di doverlo essere – era l’esigenza di non separarsi dal “sentimento anti-giapponese” della stragrande maggioranza della martoriata popolazione cinese, l’obbligo di “non isolarsi dalle masse”. In risposta a questa trita argomentazione Zheng Chaolin scrive:

I difesisti vorrebbero replicare che opponendosi alla guerra ci si oppone all’odio degli operai e dei contadini per l’imperialismo giapponese e si facilita la dominazione giapponese dei territori cinesi caduti in disgrazia, il che non solo non aiuta la rivoluzione cinese, ma la danneggia. Questa risposta è una completa eco dell’opinione pubblica borghese. La borghesia cinese interpreta ovviamente la propria partecipazione alla guerra imperialista come espressione del sentimento antigiapponese del popolo cinese, così come la borghesia democratica in generale interpreta la propria guerra come espressione del sentimento antifascista dei popoli. [11]

Perché in realtà

Le masse sono stanche degli slogan sulla difesa della patria. E neanche cospargere con un po’ di pepe di lotta di classe la solita zuppa della difesa della patria è gradito alle masse. [12]

La popolazione cinese, nel suo complesso, era tutt’altro che unanimemente o anche soltanto in maggioranza votata all’union sacrèe; tutt’altro che temprata al calor bianco della determinazione a resistere all’aggressione giapponese, soprattutto in considerazione delle miserabili condizioni in cui quella stessa popolazione era costretta a trascinare l’esistenza nelle aree controllate dal governo nazionalista “resistente”. Condizioni troppo spesso niente affatto migliori di quelle sopportate nei territori occupati; sia per la corruzione endemica, che in seguito alla decisione del Guomindang di sostituire il prelievo fiscale con un’imposta in natura per vettovagliare l’enorme quantità di soldati dell’esercito nazionalista necessaria a tenere impegnate le truppe di occupazione giapponesi. Una quantità di soldati a volte persino “gonfiata” affinché i dirigenti militari nazionalisti potessero appropriarsi delle diarie e delle derrate alimentari prelevate, per rivenderle illegalmente sul mercato nero. Pratica che sarà una delle cause, insieme alla minore estensione delle terre fertili, alla minore resa delle colture nell’Ovest cinese e ad una serie di raccolti sfortunati, di una terribile carestia aggravata dall’afflusso nei territori controllati dal governo nazionalista di milioni di profughi in fuga dall’avanzata nipponica. Appropriandosi delle derrate alimentari prelevate con l’imposta in natura e trattenendole per farne commercio, i dirigenti politici e militari locali, affiliati al Guomindang o di questo alleati, rifiuteranno spesso di farle trasportare nei territori maggiormente colpiti dalla carestia e persino di rivenderle illegalmente in queste aree, a causa dello scarso corso della valuta nazionalista, preferendo sovente rivenderle nei territori controllati dai giapponesi. Le vittime di questa immane carestia, le cui cause sono da ascriversi in misura preponderante alle contraddizioni tipiche della società capitalistica, si conteranno a milioni. Alcuni corrispondenti saranno testimoni oculari di scene raccapriccianti: contadini alla ricerca di chicchi di grano e cereali non digeriti all’interno delle deiezioni degli uccelli; profughi che la fame aveva portato ad un tale livello di disperazione da arrivare a vendere i propri figli in cambio di un involtino al vapore; atti di cannibalismo, sia occasionali che organizzati. Il tutto mentre gli alti funzionari del Guomindang non perdono occasione per indire ricevimenti e party a base di pollo, carne bovina, castagne d’acqua, formaggio di soia e dolci. Durante la seconda ondata dell’offensiva giapponese, nel 1944, la popolazione cinese assiste al patriottico e marziale spettacolo dell’impiego di parte delle truppe d’élite, necessarie a fronteggiare i giapponesi, per il trasporto delle famiglie e dei beni di ufficiali dell’esercito della “resistenza” in precipitosa fuga, mentre i rifugi antiaerei riservati alle classi inferiori sono spesso soltanto delle immense cantine scavate in fretta e senza nemmeno preoccuparsi dell’aerazione necessaria a non far soffocare orrendamente migliaia di persone[13].

I corpi di circa 2500 cinesi soffocati in un rifugio antiaereo di Chongqing, giugno 1941

Si tratta di fenomeni all’ordine del giorno nelle aree “controllate” dal governo nazionalista e che di certo non rafforzano un sentimento di unità interclassista presso la popolazione cinese, almeno per quanto riguarda il proletariato e gli strati subalterni. Al contrario, la stragrande maggioranza dei contadini e degli operai cinesi vede nel governo nazionalista la causa diretta delle proprie sofferenze. Come evidenzia lo storico indiano Rana Mitter:

… l’aspetto più agghiacciante della relazione di Jiang [Dingwen, un ufficiale del Guomindang] erano le reazioni della popolazione civile locale: «Durante questa campagna, l’evento imprevisto fu che la gente delle montagne nello Henan occidentale attaccava le nostre truppe, impadronendosi di fucili, pallottole ed esplosivi, e persino di mortai ad alta potenza e apparecchiature radio […] Circondavano le nostre truppe e uccidevano i nostri ufficiali. Ne abbiamo avuto notizie abbastanza frequenti. I capi dei villaggi e i baojia (gruppi di abitanti legati da responsabilità reciproche) si davano semplicemente alla fuga. Al tempo stesso, ci portavano via le provviste di cereali, lasciando vuote le loro case e i campi, sicché i nostri ufficiali e soldati non avevano cibo per molti giorni. […] alla fine i danni subiti dagli attacchi della popolazione sono stati molto più gravi delle perdite in battaglia con il nemico». [14]

Addirittura, Mitter ci mette al corrente di episodi che la sezione ufficiale della Quarta Internazionale in Cina avrebbe additato con orrore, preoccupata com’era di rigettare ogni coinvolgimento in una politica disfattista rivoluzionaria, con la pretesa che tale politica implicasse ipso facto il «far saltare i ponti in favore del nemico». Si tratta, in effetti, di episodi di “sabotaggio al contrario”:

Gli abitanti non obbedirono all’esercito nazionalista, che ordinava di distruggere le grandi vie di comunicazione della zona per impedire l’avanzata dei giapponesi. A volte tornavano persino di notte per riparare le strade che l’esercito aveva dissestato durante il giorno. [15]

È evidentemente sulla base della valutazione di questa realtà, e non sulla base della propaganda dominante o di schemi astratti, che Zheng Chaolin sottolinea le potenzialità che un autentico partito rivoluzionario radicato nella classe operaia urbana avrebbe avuto per condurre una politica disfattista rivoluzionaria in Cina negli anni della guerra.

Gli operai e i contadini cinesi non capiscono ancora perché il Giappone abbia invaso la Cina, né comprendono quali mezzi si possano utilizzare per eliminare l’aggressione giapponese. Questo è un dato di fatto. Il partito rivoluzionario dovrebbe affrontare questo fatto e cercare di spiegarlo alle masse con serietà e incanalare i loro sentimenti antigiapponesi sulla via rivoluzionaria, piuttosto che incanalarli nel sostegno a questa parte della guerra imperialista, e ancor meno indurle a pensare che questa guerra sia una manifestazione di sentimenti antigiapponesi. [16]

Nella sostanza Zheng Chaolin combatte l’ostinato ancoraggio dei trotskisti “ufficiali” cinesi a consegne come quella della «partecipazione attiva alla guerra senza sostenere il governo borghese»[17] – formula di comodo che certo trotskismo ha riesumato regolarmente nel corso dei decenni, fino al suo ennesimo riciclo nell’attuale guerra imperialistica in Ucraina –, perché, a suo e nostro avviso, una “partecipazione attiva” del proletariato rivoluzionario che vada oltre il mero dato fattuale del suo arruolamento obbligato nell’esercito borghese in una guerra che è oggettivamente reazionaria – in quanto pienamente inserita nella rete dei contrasti interimperialistici – costituisce di fatto un’adesione politica agli scopi della guerra stessa, costituisce concretamente quel sostegno al governo borghese che viene rifiutato verbalmente. E, d’altro canto, non è possibile preparare alcun «rovesciamento» del governo se la forzata “partecipazione militare alla guerra” dei proletari rivoluzionari non si accompagna alla lotta politica contro la guerra ed alla tattica del disfattismo rivoluzionario[18].

I veri rivoluzionari, almeno d’ora in avanti, non devono distinguere tra imperialisti giapponesi e imperialisti americani e non devono sostenere “militarmente” il governo borghese cinese nella sua guerra contro il Giappone. Una terza rivoluzione non può avere successo e non può scoppiare se l’esercito regolare cinese non viene diviso e indebolito e se non si propone con forza la parola d’ordine della lotta di classe. […] … “trasformare la guerra nippo-americana in una guerra di indipendenza nazionale” è uno slogan privo di senso. L’intero governo e l’intero esercito sono nelle mani della borghesia, e non possiamo condurre le masse in una guerra d’indipendenza a mani nude, a prescindere dal fatto che la difesa della patria è già disgustosa per le masse. Il nostro primo passo dovrebbe essere quello di distruggere il sistema borghese di governo e l’esercito, ovvero dovremmo essere disfattisti. La vecchia parola d’ordine di Lenin, “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, si adatta alle esigenze della nuova Cina. [19]

Per Zheng Chaolin, le difficoltà di un governo borghese nel condurre la sua guerra non possono mai rappresentare un argomento di “rimprovero” circa le eventuali insufficienze di quello stesso governo borghese, ma devono, al contrario, essere lette da un autentico partito rivoluzionario internazionalista unicamente in chiave di una maggiore possibilità di condurre con successo la tattica del disfattismo rivoluzionario allo scopo di trasformare la guerra reazionaria in guerra civile.

La diffusa disaffezione, se non addirittura l’ostilità, nei confronti del marcio governo nazionalista di Cash-My-Check [20] (così veniva poco affettuosamente soprannominato dagli americani Chiang Kai-shek), è fondamentale per comprendere invece la maggiore determinazione dispiegata nel sostenere lo sforzo bellico da parte della popolazione cinese nelle cosiddette aree “comuniste”. In queste aree, di fatto un vero e proprio Stato laddove lo Stato ufficiale non era in grado di arrivare, i maoisti ebbero modo di mettere in pratica un programma di riforme borghesi, nemmeno particolarmente radicali: la riduzione dei saggi d’interesse sui prestiti e dei canoni d’affitto piuttosto che la completa eliminazione dei debiti dei piccoli contadini o l’espropriazione dei contadini medi e ricchi, l’imposizione di un prelievo fiscale progressivo in natura, la centralizzazione del controllo delle pur scarse risorse industriali. Riforme che, unite ad una propaganda patriottarda persino più virulenta di quella del Guomindang, fornirono al PCC una larga base di consenso tra la popolazione, che vide nell’amministrazione “comunista” delle “aree sovietiche” una concreta alternativa alla corruzione, al malgoverno e al sopruso nazionalista, oltre che all’occupazione giapponese. Indubbiamente, a questo risultato concorse la circostanza non secondaria che tali aree non dovettero mai affrontare né il flusso principale dei milioni di profughi in fuga dall’avanzata nipponica, né tantomeno i costi della tenuta del principale fronte della guerra. Ad ogni modo, la crescente popolarità dell’amministrazione maoista, il sostegno russo e il progressivo seppure mai completo “sganciamento” degli USA da un alleato il cui governo era considerato sempre più “impresentabile” contribuirono alla vittoria del maoismo nella guerra civile che scoppiò immediatamente dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale.

La borghesia cinese, negli anni Venti, è stata costretta a rinunciare ad un suo potenziale ruolo rivoluzionario dal momento in cui si è trovata a dover fronteggiare la propria nemesi storica: il proletariato. Si tratta in fondo della contraddizione tipica dei movimenti nazionali democratico-borghesi sorti nell’epoca dell’imperialismo. È al Partito comunista cinese che riuscirà la saldatura di un programma borghese con il movimento di massa contadino, cosa che fu impossibile al Guomindang, i cui dirigenti di alto e medio livello erano in massima parte grandi, medi e piccoli proprietari terrieri urbanizzati e per lo più assenteisti; è il Partito comunista cinese che assumerà quelle funzioni di un coerente partito nazionalista che il Guomindang non era stato in grado di svolgere; sarà dunque il Partito comunista cinese che assolverà il compito di unificare realmente la Cina sotto un unico potere centralizzato, rivelandosi il vero esecutore del lascito testamentario di Sun Yatsen. Come abbiamo già avuto modo di affermare in passato, però, nella realizzazione dei borghesi “tre princìpi del popolo” – perché non di altro si tratta – il maoismo non sarà costretto a tenere conto delle istanze di un movimento operaio che è stato già decapitato e disarticolato più di un decennio prima dal Guomindang e dallo stalinismo. È per questo motivo che in Cina la rivoluzione democratico borghese, con un programma borghese moderatamente radicale ed una base di massa contadina, risulterà vittoriosa, malgrado le contraddizioni intrinseche al contesto di maturazione imperialistica del mercato capitalistico mondiale. Ma, come ebbe a scrivere Zheng Chaolin nel 1950 a proposito della vittoria del maoismo

La realizzazione dei compiti della rivoluzione democratica borghese, in generale, è naturalmente oggettivamente progressiva, ma lo sviluppo sociale ha raggiunto l’epoca della rivoluzione socialista proletaria, e ci sarebbe ben poco di progressivo se i compiti della rivoluzione democratica borghese fossero realizzati a spese della rivoluzione socialista proletaria. [21]

Ciò che all’epoca in cui Zheng Chaolin scriveva queste righe poteva sembrare «ben poco» – se paragonato alle possibilità ed alle speranze rivoluzionarie di allora – oggi è pienamente quantificabile nella dinamica storica che doveva inevitabilmente accompagnare la pur reazionaria maturazione imperialistica della potenza cinese: la trasformazione di centinaia di milioni di contadini cinesi in un moderno proletariato, ormai pienamente «in grado di porre la questione della rivoluzione su di un piano storico superiore»[22]. Si tratta del dialettico contraltare di un processo qualitativamente negativo, accelerato dalla vittoria di una rivoluzione, quella maoista, che si erse sulle ceneri della rivoluzione proletaria cinese del 1925-27, sconfitta dalla controrivoluzione stalinista internazionale.

Il cambio della guardia borghese in Cina: dal “Generalissimo” al “Grande Timoniere”

Nelle tenebre di questa sconfitta, tuttavia, fiammeggiano ancora, per illuminare il cammino delle giovani avanguardie proletarie cinesi di oggi e di domani, quelli che abbiamo definito i “bagliori nella notte” dell’internazionalismo in Cina, la cui “lunga marcia” sotto i colpi della repressione durò per decenni – senza purtroppo condurre al trionfo – ma la cui lotta non si prestò mai ad essere inquadrata in una “resistenza” subordinata alle esigenze della guerra imperialista. Sotto questo profilo, vale la pena rievocare il coraggioso – per quanto oggettivamente limitato – lavoro politico clandestino che l’esigua minoranza internazionalista cinese riuscì a condurre presso la classe operaia di Shanghai, nonostante il tallone di ferro dell’occupazione giapponese, persino dopo l’invasione delle Concessioni internazionali nel 1941. Come ricorda Wang Fanxi

Dal dicembre 1941 fino alla resa giapponese nell’agosto 1945, sviluppare il lavoro in un qualsiasi campo fu quasi impossibile e fu difficile mantenere anche soltanto un’esistenza. I nostri legami con altri paesi e con altre parti della Cina furono interrotti e le nostre attività limitate. […] Fedeli al nostro orientamento operaio, continuammo a dedicarci alle attività tra i lavoratori, con l’obiettivo di educarli e organizzarli. A questo proposito, il reclutamento dell’avvocato Zhang Deze e di sua sorella Zhang Dehan all’interno del gruppo merita di essere menzionato, poiché, con l’aiuto dei loro generosi contributi, siamo stati in grado di finanziare la gestione di due scuole nel quartiere operaio di Shanghai ovest, approfondendo così i nostri contatti con la classe operaia. Gli operai delle fabbriche di tessitura della seta di questa zona erano da tempo in contatto con il movimento trotskista cinese. Jiang Zhendong, uno dei dirigenti delle famose insurrezioni di Shanghai del 1927, assistito da mio nipote Wang Songjiu, era responsabile di queste scuole, il cui personale era composto esclusivamente da insegnanti trotskisti. Attraverso di loro, siamo riusciti a estendere la nostra influenza tra questi lavoratori, i cui figli costituivano la maggior parte dei nostri alunni. Grazie ai legami stabiliti, riuscimmo a condurre una serie di lotte direttamente sotto il naso degli imperialisti giapponesi. In questo periodo costruimmo anche una base tra i tranvieri della Concessione francese. [23]

Si tratta di un lavoro nella classe consapevole dei limiti che la controrivoluzione aveva imposto alle possibilità di un vasto movimento internazionalista, l’unico strumento in grado di rendere praticabile persino la strada dell’organizzazione di fraternizzazioni con i soldati giapponesi, anch’essi perlopiù provenienti dalla classe operaia, fra i quali, malgrado il completo annientamento in Giappone dell’avanguardia rivoluzionaria nei primissimi anni Trenta, non avrebbero tardato a manifestarsi le inevitabili reazioni alle condizioni d’esistenza in cui la guerra imperialista trascina gli eserciti sconfitti.

Certo, i risultati descritti da Wang Fanxi possono sembrare poca cosa, eppure si tratta delle piccole conquiste di un lento, metodico e perseverante lavoro rivoluzionario, del lavoro di chi è consapevole che prima di poter anche soltanto pensare di passare alla fase del “raccolto” è necessario un duro impegno, spesso plurigenerazionale, di dissodamento, di semina, di coltura; un lavoro teorico e organizzativo; un lavoro che annoia e spazientisce gli “immediatisti” di sempre, e che certamente non può entusiasmare i relitti di un’ormai stanca, verbosa e ritualizzata area di “sinistra”, di converso troppo spesso incapaci, oggi come ieri, di darsi un contegno di fronte alla pittoresca e suggestiva rievocazione del guerrigliero “popolare”.


NOTE

[a] I potentati militari “alleati” del governo di Nanchino erano tre: quello del generale Feng Yuxiang che controllava le province del Gansu, Shaanxi e Henan; quello del generale Yan Xishan nella provincia dello Shanxi e quello dei generali del Guangxi con le province dell’Hupei, Hunan e Hebei. Il generale Zhang Xueliang, governatore delle tre province della Manciuria, manteneva una posizione ambivalente, mentre le province meridionali del Guizhou e dello Yunnan, quella del Sichuan e del Tibet non riconoscevano la sovranità di Nanchino; quella dello Shandong era sotto controllo giapponese, la Mongolia esterna e lo Xinjiang sotto quello russo.

[b] Prima di costoro assunse per breve tempo l’incarico di consigliere militare ed economico il colonnello di Stato Maggiore tedesco Max Bauer.

[1] Il 15 luglio 1937 era stata consegnata ai rappresentanti di Chiang Kai-shek una Pubblica dichiarazione del Partito comunista sull’alleanza con il Guomindang, nella quale Zhou Enlai scrive: «Noi tutti sappiamo che in questo momento, quando l’esistenza della nazione è così seriamente compromessa, l’aggressione del Giappone imperialista può essere fronteggiata soltanto con l’unificazione interna del Paese. Le basi per una solidarietà nazionale sono state già gettate, come sono state stabilite le premesse per l’indipendenza e l’emancipazione nazionale. Il Comitato centrale del PCC saluta il fulgido futuro della nostra patria. […] per assicurare una reale collaborazione con il Guomindang, per consolidare la pace e l’unificazione nazionale e intraprendere la guerra generale rivoluzionaria contro il Giappone, abbiamo deciso di mettere subito in pratica le nostre affermazioni che ancora non sono state formalmente realizzate – come l’abolizione della zona dei soviet e la riorganizzazione dei soviet –, affinché sia costituita una forza nazionale unificata per resistere all’aggressore straniero». Cit. in A. Bronzo, Le ombre del Drago. Storia critica del comunismo in Cina, dalle origini ai giorni nostri, Red Star Press, Roma, 2016, p. 365.

[2] Mao Zedong, I compiti del Partito comunista cinese nel periodo della resistenza al Giappone, maggio 1937, cit. in A. Bronzo, Op. cit., p. 361.

[3] R. Mitter, Lotta per la sopravvivenza. La guerra della Cina contro il Giappone 1937-1945, Einaudi, Torino, 2019, pp. 170-171.

[4] In questa battaglia, durata dal maggio al settembre 1939, sessantamila soldati sovietici affrontarono quarantamila soldati giapponesi del Manchukuo.

[5] Tra il 1938 e il 1940 l’URSS inviò al governo cinese un contingente di oltre 400 aeroplani di fabbricazione russa, 40 istruttori e circa 2000 piloti, oltre ad un finanziamento stimato complessivamente tra i duecentocinquanta e i trecento milioni di dollari. Nello stesso periodo, il PCC ricevette dall’URSS solo tre milioni di dollari.

[6] Nel dicembre 1938 il Tesoro USA facilitò la concessione alla Cina nazionalista di un prestito privato di 25 milioni di dollari (da ripagare con forniture di olio di tung); nel novembre 1940 il governo USA annunciò un accordo per un prestito di 100 milioni di dollari e nel 1941 gli Stati Uniti fornirono al Guomindang materiale bellico per un valore di quarantacinque milioni di dollari. Tra il 1941 e il 1942 la quota degli aiuti americani indirizzati alla Cina ammontava all’1,5% del totale del programma “Lend-Lease”, calando allo 0,5% nel 1943 e risalendo al 4% nel 1945.

[7] Zheng C., Sotto la bandiera del disfattismo rivoluzionario!, febbraio 1941, in AA. VV., Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023, Vol. 2, p. 557.

[8] Zheng C. La rivoluzione cinese e la Seconda guerra mondiale, 1943, in AA. VV., Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023, Vol. 2, p. 577.

[9] Ibidem, p.574.

[10] Zheng C., Sotto la bandiera del disfattismo rivoluzionario!, p. 558.

[11] Zheng C. La rivoluzione cinese e la Seconda guerra mondiale, pp. 581-582.

[12] Zheng C., Sotto la bandiera del disfattismo rivoluzionario!, pp. 556-557.

[13] «Gli esponenti del governo disponevano di permessi speciali di accesso a rifugi riservati e potevano anche procurarsi certificati che consentivano di portare i familiari. A chi poteva permettersi il vero lusso, il versamento annuo di duemila yuan consentiva l’accesso ai rifugi di primissima categoria». R. Mitter, Op. cit., p. 185.

[14] Ibidem, p. 342.

[15] Ibidem, p. 344.

[16] Zheng C. La rivoluzione cinese e la Seconda guerra mondiale, p. 582.

[17] Per lo stesso Trotsky, purtroppo, «[non] c’è motivo di ripetere che tutti i lavoratori rivoluzionari, partecipando attivamente alla guerra e a tutte le attività connesse alla guerra, non debbono assumersi la sostanza delle responsabilità politiche del governo borghese» (L. Trotsky, On the Sino-Japanese War, in R. Block – L. Evans, Leon Trotsky on China pp. 567-571). Come se la guerra stessa e le attività ad essa connesse, ovvero la produzione bellica con i suoi ritmi e le sue limitazioni alle rivendicazioni del proletariato, non costituissero la sostanza delle responsabilità politiche del governo borghese.

[18] «Mentre si partecipa alla lotta militare agli ordini di Chiang Kai-shek, dal momento che sfortunatamente è egli che ha il comando della guerra per l’indipendenza, bisogna prepararsi a rovesciare Chiang Kai-shek (…); questa è la sola politica rivoluzionaria» (L. Trotsky, Op. cit.).

[19] Zheng C., Sotto la bandiera del disfattismo rivoluzionario!, pp. 556-557.

[20] Incasso i miei titoli.

[21] Zheng C., Il capitalismo di Stato, Movimento Reale, Roma, gennaio 2023, p. 91.

[22] Ibidem, p. 95.

[23] Wang F., La Lega comunista di Cina (gruppo Internazionalista), 1957, in AA. VV., Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023, Vol. 1, pp.288-289.

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