
Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.
V
Vivono nella menzogna più vasta e più nauseante che la storia abbia mai conosciuto dalle menzogne del cristianesimo in poi, un imbroglio che ha in sé molti elementi di verità… Si riallacciano alla rivoluzione realizzata – realizzata davvero –, agitano la bandiera rossa facendo appello all’istinto più forte e più giusto delle masse; facendo leva sulla loro fede; prendono gli uomini solo per carpirgli questa fede, per servirsene come strumento di potere. La loro forza più temibile proviene sempre dal fatto che la maggior parte è convinta di proseguire la rivoluzione mettendosi al servizio di una nuova controrivoluzione. Fino a oggi non si era mai visto nulla di simile, la controrivoluzione ha preso dimora negli stessi locali in cui lavorava Lenin. Victor Serge, Il caso Tulaev, 1948
Nel 1914, il dispiegarsi del processo di accumulazione entro quelli che – relativamente all’epoca – erano i confini del mercato capitalistico mondiale era arrivato al punto critico della guerra interimperialista. L’ascendente capitalismo tedesco reclamava una ridefinizione delle sfere d’influenza e dei mercati che riflettesse la sua forza economica e che rispondesse alle esigenze del suo grado di accumulazione, scontrandosi con il predominio coloniale dell’impero britannico – una potenza ancora forte ma in progressivo declino dal punto di vista industriale –, con le pretese egemoniche della Francia sul continente europeo e con l’impetuoso slancio capitalistico degli Stati Uniti d’America.
La Prima guerra mondiale non aveva consentito alle potenze capitalistiche emergenti di spezzare gli obsoleti rapporti coloniali che ostacolavano l’afflusso di capitali in gran parte delle aree capitalisticamente arretrate del pianeta, e le distruzioni in Europa non erano state sufficienti ad immergere il capitalismo mondiale in un «bagno di giovinezza», costituito da nuovi ampi margini di valorizzazione, tale da consentirgli a livello complessivo un forte rilancio del ciclo di accumulazione. La ripresa fu parziale e la stabilizzazione non durò a lungo.
In un ciclo nel quale la crisi doveva manifestarsi nuovamente in tempi relativamente brevi, e in un contesto nel quale i contenziosi politici tra le potenze erano stati lasciati aperti, esacerbati o creati ex-novo dalla guerra, questi ultimi dovevano fornire l’occasione per una nuova guerra a soli venti anni da quella precedente.
Nell’immediato dopoguerra, da un lato i contrastanti interessi delle potenze dell’Intesa, e dall’altro la minaccia costituita dall’estensione della rivoluzione proletaria scoppiata in Russia, contrapposero la politica della Francia a quella della Gran Bretagna e degli Stati Uniti nei confronti della Germania sconfitta. In seguito, il gioco di bilancia tendente ad impedire la formazione di una potenza egemonica sul continente europeo, e al tempo stesso la necessità di una Germania sufficientemente stabile da non precipitare nel caos rivoluzionario, favorirono dal punto di vista internazionale l’ascesa del nazismo.
Nella misura in cui il capitalismo tedesco riprendeva i fili delle sue esigenze di espansione economica – favorito proprio dagli investimenti americani prima e dopo la crisi del 1929 –, una forma politica apertamente revisionista rispetto agli assetti stabiliti dal Trattato di Versailles doveva rapidamente e prepotentemente riproporre lo scenario del 1914.
In questo periodo l’imperialismo aveva comunque dimostrato da un lato la possibilità di sviluppare quantitativamente e tecnicamente le forze produttive, e, dall’altro, tutta la capacità della classe dominante di trarre profondi insegnamenti dall’ondata rivoluzionaria che aveva scosso il suo dominio nell’immediato primo dopoguerra.
Dal punto di vista politico, le esigenze di una mobilitazione bellica senza precedenti e il conseguente sviluppo degli apparati di propaganda e, a fine guerra, l’impiego a piene mani delle organizzazioni opportuniste – socialiste o socialdemocratiche – per contenere la radicalizzazione della classe operaia, hanno condotto la borghesia a ristrutturare profondamente le sue forme di rappresentanza, rendendole più adatte al coinvolgimento delle masse nella vita politica istituzionale. La borghesia ha inoltre saputo ispirarsi alla forma organizzativa nella quale si era espressa in Russia la coscienza teorica del proletariato – il partito bolscevico – per porsi all’altezza delle nuove esigenze imperialistiche, rottamando i vecchi partiti democratico-liberali e conservatori, consorterie elitarie e perlopiù prive di presa su vasti strati sociali, sostituendole con organizzazioni politiche ideologicamente e tecnicamente attrezzate alla mobilitazione di massa. Sotto questo aspetto, la controrivoluzione stalinista, svuotando della sua funzione il partito bolscevico e sostituendola con i compiti derivanti dall’esigenza dell’accumulazione capitalistica in un paese arretrato, ha alterato e ipertrofizzato alcune caratteristiche formali dell’organizzazione rivoluzionaria, fondendo organizzazione politica e apparato statale in una formidabile macchina di controllo e repressione sociale e influendo profondamente sullo sviluppo delle organizzazioni reazionarie della borghesia in tutto il mondo; da quelle “democratiche”, fasciste e naziste in occidente a quelle “nazional-rivoluzionarie” in oriente, a volte persino tramite dirette “consulenze tecniche” (come nel caso del Guomindang cinese).
Dal punto di vista economico, il capitalismo è stato in grado di approntare strategie di tamponamento delle sue crisi. La borghesia, attraverso i suoi Stati, si è autoimposta una serie di misure di politica economica e fiscale per cercare di alleggerire le conseguenze sociali della crisi, per mezzo di un allargamento della spesa pubblica che riassorbisse parte della disoccupazione tramite sussidi e lavori di pubblica utilità… o inutilità. Ovviamente, pur nell’impossibilità di risolvere le cause strutturali della crisi, queste misure-tampone hanno assolto alla funzione di puntellare il sistema fino all’inevitabile soluzione bellica, coadiuvate a questo scopo dalla mobilitazione ideologica nazionalista gestita dai partiti di massa.
Dal punto di vista tecnologico, il capitalismo imperialistico ha enormemente potenziato il suo apparato industriale per la produzione di massa; i suoi mezzi di trasporto e comunicazione: ferrovie, flotte mercantili, autostrade e automobili; i suoi strumenti di diffusione di informazione e di propaganda: radio, telefoni, cinema; i suoi arsenali militari: mezzi corrazzati rapidi, flotte militari, sommergibili, aviazione, ordigni esplosivi e incendiari, fino alla scoperta e all’impiego della fissione nucleare.
Dal punto di vista militare, le borghesie delle potenze imperialiste sono state in grado di dotarsi di eserciti gestibili con un elevato grado di sicurezza, con una capillare ideologizzazione e motivazione delle truppe, ottenuta per mezzo di sofisticati ed efficienti apparati di propaganda; con uno stringente controllo politico-organizzativo delle stesse, ottenuto in certi casi proprio mutuando l’esperienza bolscevica dei “commissari politici” dell’Esercito Rosso; con il sensibile miglioramento delle condizioni di vita dei soldati; sia in termini materiali che per quanto riguarda i rapporti gerarchici formali.
Lo sviluppo di tutti questi elementi politico-economici e tecnico-scientifici ebbe un fortissimo impatto sulla configurazione militare, sociale e politica del secondo conflitto interimperialistico.
Tuttavia, la circostanza che fra tutte ebbe forse l’impatto maggiore nel determinare la diversità delle condizioni tra le due guerre, fu il fatto che stavolta il movimento operaio internazionale era stato pressoché interamente asservito alle esigenze dei vari comparti nazionali del capitalismo. Il fatto che stavolta le sue avanguardie, le minoranze rivoluzionarie, erano state quasi completamente annientate dal convergere della reazione socialdemocratica, fascista e democratica, e dalla nuova e più catastrofica forma di socialimperialismo rappresentata dallo stalinismo.
Una parte non trascurabile del movimento rivoluzionario tra le due guerre, pur conducendo una coraggiosa opposizione alla forma fenomenica dello stalinismo – pagando per questa opposizione un altissimo prezzo di sangue –, non è stata in effetti in grado di individuare le radici sociali del fenomeno; non è stata in grado di riconoscere che, venendo meno l’estensione dell’ondata rivoluzionaria postbellica, la realtà economica capitalistica russa non aveva potuto essere sradicata e che quest’ultima aveva immancabilmente, rapidamente, violentemente trovato la propria espressione sovrastrutturale nell’involucro dello stesso partito che aveva guidato il processo rivoluzionario; non era stata in grado di comprendere che lo stalinismo non rappresentava una corrente di “destra” o di “centro” del movimento proletario all’interno di uno “Stato operaio” dalle basi economiche “fondamentalmente socialiste”, ma la peggiore forma di controrivoluzione capitalistica. Una controrivoluzione che, non accontentandosi di sterminare i propri nemici, si appropriava indebitamente persino delle loro insegne, attingendo a piene mani al lessico, all’iconografia, agli stessi uomini e alle stesse tradizioni della rivoluzione socialista.
Nei primissimi anni Venti, quando il processo controrivoluzionario non aveva ancora preso completamente il sopravvento, alcuni marxisti si posero il problema di come il movimento operaio rivoluzionario dei diversi paesi avrebbe dovuto affrontare il pericolo di una nuova guerra imperialistica mondiale.
Rispetto allo scenario del 1914, in effetti, che vedeva contrapposti degli Stati capitalistici in una guerra imperialista, occorreva tenere conto nell’equazione dell’esistenza di uno Stato operaio, di un esercito rivoluzionario in Russia e di un’Internazionale comunista. Quale atteggiamento avrebbero dovuto assumere nei confronti della guerra i rivoluzionari internazionalisti nei singoli paesi capitalistici coinvolti?
Una risposta a nostro parere corretta fu certamente quella di chi, nel mutato contesto, affermava la necessità di una tattica specifica e diversificata a seconda dei rapporti che il proprio Stato capitalistico intratteneva con lo Stato operaio nel corso della guerra.
Tutti gli Stati capitalistici sono per loro natura accomunati dalla loro ostilità ad uno Stato operaio rivoluzionario, ma sono al tempo stesso divisi dai loro rispettivi ritmi di sviluppo e dai loro interessi di potenza; fu proprio questa divisione nel campo imperialista a consentire alla rivoluzione proletaria russa di sopravvivere, impedendo che si concretizzasse una stabile coalizione militare contro la Repubblica dei soviet.
Analogamente, non si poteva escludere in linea di principio la possibilità storica che, in una guerra che fosse scoppiata nei primissimi anni Venti per reprimere lo Stato proletario, uno o più Stati capitalistici potessero trovarsi, nella difesa dei propri interessi di potenza, a sostenere strumentalmente la Repubblica dei soviet, anche dal punto di vista militare.
In tal caso, l’applicazione del principio della trasformazione della crisi del mondo capitalistico e della guerra imperialista in rivoluzione proletaria internazionale avrebbe imposto ai partiti comunisti dei paesi capitalisti in guerra contro lo Stato proletario di confermare una tattica disfattista, mentre i partiti comunisti dei paesi capitalisti che si fossero posizionati temporaneamente “a fianco” dello Stato proletario avrebbero potuto indicare alla classe operaia di non sabotare lo sforzo bellico, continuando a mantenere salda la propria indipendenza nei confronti dello Stato borghese, costante la propria opposizione di classe e inalterato l’obiettivo di rovesciarlo quando se ne fosse presentata la migliore occasione.
Finché lo Stato operaio in Russia aveva rappresentato un vittorioso reparto locale della classe operaia mondiale, la guerra di classe internazionale poteva manifestarsi anche come una guerra fra Stati borghesi e Stati proletari; ecco perché da un punto di vista astratto, le correnti marxiste che assunsero una posizione “difesista” dell’URSS nel corso della Seconda guerra mondiale non commisero un errore di principio. Il vero errore – se di errore si può parlare – che ha trascinato di peso queste correnti fuori dall’internazionalismo proletario e con ciò fuori dal marxismo, fu nel non aver compreso che nella Seconda guerra mondiale le premesse dello scenario che abbiamo esposto, ovvero l’esistenza di uno Stato operaio rivoluzionario all’interno del quadro, non esistevano più da molti anni. L’ostinata riproposizione di una tattica che non ammetteva il venir meno di un suo presupposto fondamentale ha reso queste correnti oggettivamente responsabili di aver contribuito alla disfatta del movimento operaio sotto i convergenti colpi della controrivoluzione fascista, democratica e stalinista. Una responsabilità della quale ancora oggi – dopo decenni – non sono state in grado di riconoscere le profonde radici teoriche da cui continuano a germogliare frutti avvelenati; e una disfatta di cui la classe operaia ancora oggi paga il prezzo.
Ancora oggi vengono propinate “analisi” a proposito di guerre di cui si nega la natura imperialista – o la si nega su uno dei fronti in lotta – per convincersi e convincere la classe operaia della “necessità di schierarsi” con l’uno o con l’altro contendente, nell’eterna e inguaribile riproposizione di formule tattiche stantie che garantirebbero il “male minore”.
Ancora oggi si postula che una guerra sia interimperialista, ovvero imperialista su tutti i fronti, solo quando almeno due potenze dell’imperialismo si scontrano direttamente sul piano militare; che una guerra interimperialistica possa essere definita mondiale solo quando tutte le potenze si scontrano direttamente, o, peggio ancora, che una guerra è imperialista solo se è simultaneamente mondiale. Eppure, se non bastasse la logica dialettica, sarebbe sufficiente una ricognizione storica per riconoscere in primo luogo che una guerra può essere interimperialista anche senza coinvolgere direttamente nello scontro militare due o più potenze dell’imperialismo, se, a dispetto degli effettivi contendenti sul campo militare, gli interessi fondamentali che si scontrano sono interessi imperialistici[1]; in secondo luogo che una guerra interimperialista può definirsi mondiale anche senza coinvolgere direttamente tutte le potenze imperialiste nello stesso momento, come ci ricorda la dinamica della Seconda guerra mondiale che, dal 1939 al 1941, ha visto scontrarsi essenzialmente la Germania, la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e il Giappone (già impegnato in Cina), prima che scendessero in campo l’URSS e gli USA.
Alla data 1939, dunque, il proletariato russo è schiavizzato sotto il peso dei piani quinquennali, i dirigenti e i militanti bolscevichi sono stati eliminati politicamente e fisicamente, il declamato “socialismo” russo parla la lingua della più feroce estorsione di plusvalore operaio e della controrivoluzione portata all’interno del movimento operaio internazionale; l’avanguardia della classe operaia tedesca è stata brutalmente annichilita dalla violenza del nazismo, ai colpi della quale è stata consegnata, legata mani e piedi, dalla politica estera del capitalismo di Stato russo, mentre il resto della classe è solidamente irregimentato nella produzione bellica; la classe operaia italiana, complice la corresponsabilità del socialismo riformista, l’irresolutezza del socialismo massimalista e le mene tattiche dei “bolscevizzatori” dell’Internazionale comunista in via di stalinizzazione, è ormai da più di tre lustri sotto il tallone di ferro fascista; la classe operaia spagnola è stata sconfitta sulle soglie del potere rivoluzionario dal “gran rifiuto” anarchico del potere rivoluzionario e dalla sua compromissione con il potere borghese “democratico”, prima ancora che dall’opera controrivoluzionaria dello stalinismo internazionale e delle legioni franchiste; il proletariato francese, i cui sussulti di classe negli anni del «fronte popolare» sono stati prontamente sedati dalla convergenza tra socialisti e stalinisti, è profondamente influenzato dal socialsciovinismo, mentre la classe operaia inglese e quella americana sono saldamente sotto il controllo della democrazia imperialistica, prive di un’avanguardia rivoluzionaria in grado di inserirsi nel ciclo di intense lotte degli anni Trenta.
Il capolavoro dell’imperialismo, in tutte le sue forme politiche, alle soglie della nuova guerra, fu la riuscita soppressione ideologica della contrapposizione di classe e la sua sostituzione con la presunta dicotomia tra i concetti di fascismo e antifascismo, di barbarie totalitaria e civiltà democratica, di regimi “popolari” e plutocrazie; fu il riuscito dissolvimento del concetto di classe nell’immaginaria comunità nazionale.
La comprensione della natura sociale dell’URSS e la valutazione della Seconda guerra mondiale come guerra imperialistica su tutti i fronti sono stati i due elementi che, condizionandosi reciprocamente, hanno caratterizzato il grado di consapevolezza teorica delle minoranze internazionaliste a cavallo degli anni Quaranta del secolo scorso.
Fu la percezione, in alcuni casi ancora intuitiva, che l’URSS stesse prendendo parte ad una guerra di spartizione di territori, risorse, mercati e sfere d’influenza alla stessa stregua degli altri briganti imperialisti – soprattutto in occasione della stipula del patto Molotov-Ribbentrop nell’agosto 1939 e della successiva spartizione della Polonia con la Germania nazista, dell’occupazione dei paesi baltici e dell’aggressione alla Finlandia, a spingere diversi marxisti a ricercare le determinazioni sociali di questa politica, al di là della cortina ideologica delle “abili mosse tattiche” per la difesa del “primo Stato socialista”. Per altri marxisti invece fu il previo, sofferto riconoscimento delle radici capitalistiche della politica staliniana a permettere di identificare la natura imperialistica del conflitto, senza lasciarsi ipnotizzare dalle sirene ideologiche della guerra tra “nazioni proletarie” e “demoplutocrazie” prima e di quella tra “democrazia” e nazifascismo dopo l’invasione tedesca della Russia.
Per quanto la maturazione di queste convinzioni si sia realizzata attraverso un processo a volte non scevro da incompiutezza, contraddizioni, tentennamenti, incertezze espositive, il dato confortante risiede indubbiamente nella correttezza della direzione intrapresa e nella sostanziale convergenza di realtà spesso assai distanti tra loro per aree politiche di provenienza.
I piccoli gruppi di internazionalisti che provarono a sciogliere il nodo storico del secondo conflitto imperialistico mondiale si trovarono di fronte un fenomeno complesso che, se da un lato non poteva che confermare la sostanziale continuità della dinamica capitalistica, presentava tuttavia degli elementi inediti che dovevano essere colti pienamente per rendere la comprensione generale del fenomeno il fondamento della possibilità di costituire un fattore di intervento attivo.
Pur senza affrontare nel dettaglio le diverse fasi della guerra dal punto di vista politico-militare, è possibile tracciare un quadro d’insieme dei fattori di relativa novità rispetto al precedente conflitto mondiale.
In Asia la seconda guerra imperialistica mondiale si combatte già da anni, con l’invasione giapponese della Cina. Il Guomindang è ormai il rappresentante di una borghesia cinese che, dopo aver massacrato il proletariato organizzato dei centri urbani, ha abdicato a qualsiasi ruolo rivoluzionario e che si presta al ruolo di sensale degli interessi delle varie potenze imperialiste. Dapprima dell’Inghilterra, passando per la Germania per arrivare agli Stati Uniti, per procura dei quali il governo nazionalista di Chiang Kai-shek combatte una “guerra di Liberazione” contro il Giappone, in vigile e sospettosa alleanza con le forze democratico-borghesi di un Partito comunista cinese ormai stalinizzato e con una base di massa contadina.
In Europa, la Germania, annessa l’Austria e posta sotto controllo la Cecoslovacchia, si assicura la pace sul fronte orientale cedendo alla Russia i territori dell’ex impero zarista, e, dopo aver spartito con Stalin la Polonia, invade la Danimarca e la Norvegia, l’Olanda, il Belgio e la Francia. Con l’occupazione, si profila il tentativo di un’unificazione politica ed economica del mercato europeo sotto il controllo del capitale rappresentato dal Terzo Reich. Viene messa in atto una riorganizzazione dell’industria dei paesi occupati; alcuni impianti vengono chiusi per eliminare la concorrenza, altri vengono integrati con la produzione tedesca, bellica e civile; vengono istituiti un sistema unico di misurazione e un cambio monetario fisso; il costo della vita e i livelli salariali vengono allineati; si procede nella direzione di una legislazione che regoli la fondazione, la chiusura e l’ampliamento di imprese economiche, nonché le tariffe doganali e il commercio estero, per contrastare principalmente la concorrenza delle merci e dei capitali americani.
Nel frattempo, nel 1941, la Germania rompe il patto con la Russia staliniana e la invade poco prima che l’irrisolto contenzioso imperialista nei Balcani tra Germania e URSS determini inevitabilmente un cambiamento delle alleanze da parte di quest’ultima, e, alla fine dello stesso anno, gli USA entrano in guerra dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Nella misura in cui la guerra si prolunga ed estende, coinvolgendo anche i possedimenti coloniali delle potenze europee sconfitte, la Germania procede progressivamente al drenaggio di materie prime, prodotti industriali e macchinari dai paesi occupati. Tuttavia, il dato maggiormente carico di significato economico, politico e sociale, è la mobilitazione coatta di milioni di operai da ogni angolo d’Europa per soddisfare le esigenze dell’economia di guerra tedesca, un fenomeno che si configura come una vera e propria deportazione di massa, con la ridislocazione, prevalentemente in Germania, di un proletariato proveniente da diversi paesi in condizioni che vanno da quelle semiservili a quelle propriamente schiaviste. Ciò, come vedremo, non sarà privo di conseguenze sulla condizione della classe operaia tedesca e sulle prospettive di un’eventuale rivoluzione proletaria in Europa.
NOTE
[1] Un esempio recente è il conflitto in Siria, nel quale confliggono gli interessi degli USA, della Russia e di altri contendenti senza che si sia arrivati allo scontro militare diretto, per non parlare ulteriormente della guerra in Ucraina, che è ancora in corso.
