LA GUERRA IN UCRAINA E LA QUESTIONE NAZIONALE NELL’EPOCA DELLA MATURAZIONE IMPERIALISTICA

Pubblichiamo il testo dell’intervento conclusivo della conferenza/dibattito contro la guerra imperialista in Ucraina, tenutasi nella sala “Big Bill Haywood” di Roma il 27 marzo 2022 e organizzata dal Circolo internazionalista “coalizione operaia” e da Prospettiva Marxista.


S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. […] E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli“, – frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace, e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. K. Marx, Critica del programma di Gotha, 1875

L’operaio che pone l’unione politica con la borghesia della «propria» nazione al di sopra dell’unità completa con i proletari di tutte le nazioni agisce quindi contro i propri interessi, contro gli interessi del socialismo e della democrazia. Lenin, Tesi sulla questione nazionale, 1913

Fino a poche ore prima dello scoppio del conflitto in Ucraina, nessuna delle varie organizzazioni o gruppi che si richiamano all’internazionalismo proletario aveva nulla da eccepire sulla definizione della guerra in arrivo come guerra imperialista, su entrambi i fronti. Sono bastati pochi giorni di intensa, pervasiva, totale e violenta propaganda di guerra da parte dei media delle potenze imperialistiche occidentali per far emergere perplessità, ripensamenti più o meno dichiarati, emendamenti o sofisticazioni a proposito della caratterizzazione del conflitto in corso e dei compiti dei rivoluzionari internazionalisti.

L’invasione del territorio ucraino da parte dei carri armati russi e l’insistente richiamo da parte del governo della borghesia ucraina ad una “resistenza nazionale” – richiamo amplificato con un martellamento mediatico a cui non si assisteva da decenni – hanno sparigliato le carte.

L’incapacità strutturale della maggior parte degli internazionalisti “in tempo di pace” di resistere concettualmente ed emotivamente ad una campagna propagandistica così capillare, metodica ed efficace, e le conseguenze della diffusione di questa propaganda su vasti strati della classe operaia, è venuta allo scoperto, rivelando a sua volta una comprensione superficiale, una mancata assimilazione del metodo materialista di analisi del modo di produzione capitalistico e delle sue espressioni sovrastrutturali, una adesione puramente verbale ad un internazionalismo proletario mai pienamente afferrato nelle sue implicazioni e nella sua profondità, una mancanza di fiducia nel ruolo storico della classe operaia che, quando non la si vede direttamente protagonista, si trasforma nell’ansia di schierarsi con qualunque cosa abbia l’apparenza del moto, non importa quale direzione abbia questo moto. Ovviamente, questa incomprensione non è del tutto casuale. Essa affonda le sue radici in una fase del ciclo dell’accumulazione che ha generato un lungo riflusso del movimento operaio a livello mondiale. Riflusso che ha lasciato in secca, ma ancora visibili nei suoi effetti ideologici sulla nostra classe, i relitti di un’intellettualità piccolo-borghese e di strati sociali intermedi messi in moto da passate ondate di lotta del proletariato. L’espressione cosciente della classe rivoluzionaria non è stata in grado, a suo tempo, di strutturarsi quanto necessario per affrontare la fase di riflusso su posizioni inevitabilmente minoritarie ma quantomeno vitali. È un ritardo che la nostra classe oggi sconta pesantemente. Ci si può consolare affermando che teoricamente i conti con l’opportunismo e con il movimentismo massimalista sono stati fatti, ma le condizioni di assoluta irrilevanza in cui versa attualmente l’autocoscienza proletaria – che, beninteso, non poteva nel migliore dei casi rappresentare molto più di una piccola ridotta con solidi legami nella classe – indicano inequivocabilmente che si sono manifestati anche dei limiti teorici, il cui riconoscimento però andrebbe spesso a minare equilibri consolidati, personali esigenze esistenziali, comodi riti e liturgie a cui non si è in grado di rinunciare.

La guerra imperialistica in Ucraina ha rimesso in circolazione presso una sinistra formalmente internazionalista tutta una serie di parole d’ordine e di frasi civetta che sembrano agire come un richiamo irresistibile per molti che non hanno l’accortezza di legarsi strettamente all’albero maestro della teoria marxista prima di gettarsi in acque infestate dalle sirene borghesi. “Aggressione”, “invasione”, “resistenza”, “autodeterminazione dei popoli” sono quelle più in voga al momento. Nell’adoperare questo frasario contro un “astratto principismo” internazionalista è frequente il richiamo alla “concretezza spregiudicata” di Marx, di Engels e soprattutto di Lenin.

A ben vedere però, non si tratta di una novità assoluta nella storia del movimento operaio.

Nel 1914, un socialista che passava per arci-rivoluzionario scrisse:

…un Partito che vuol vivere nella storia e fare – per quanto gli è concesso – la storia, non può soggiacere – pena il suicidio – a una norma cui si conferisca valore di dogma indiscutibile o di legge eterna sottratta alle ferree necessità dello spazio e del tempo. […] … non possiamo “imbozzolarci” in una formula, se non vogliamo condannarci all’immobilità. La realtà si muove e con ritmo accelerato. Abbiamo avuto il singolarissimo privilegio di vivere nell’ora più tragica della storia del mondo. Vogliamo essere – come uomini e come socialisti – gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne – in qualche modo o in qualche senso – i protagonisti? Socialisti d’Italia, badate: talvolta è accaduto che la “lettera” uccidesse lo “spirito”. Non salviamo la “lettera” del Partito se ciò significa uccidere lo “spirito” del socialismo![1]

Quante volte abbiamo sentito questa vecchia canzone nelle ultime settimane, in Italia e all’estero. Il socialista “arci-rivoluzionario” e “anti-principista”, che la cantava, si chiamava Benito Mussolini.

Fu Bordiga a rispondergli che la melodia suonava note stonate:

La preoccupazione di mettersi nel campo della realtà equivale ad accettare l’insidia polemica – e pratica – dei nostri avversari, che pretendono di porre i principi del socialismo su altra base che quella della realtà che ci circonda, per demolirne così la potenzialità sovvertitrice. […]Iltimore di permettere che il presente sia sopraffatto dal passato, mentre noi ci illudiamo di lavorare per l’avvenire, è squisitamente riformistico. Il presente, quando noi staremo per travolgerlo, griderà sempre al pericolo contro le risurrezioni del passato. Il rivoluzionarismo marxista dovrebbe portarci ben fuori di questo tranello.[2]

I nostri principi e la nostra analisi, se sono marxisti, hanno sempre le radici affondate saldamente nella realtà che ci circonda. E la concretezza spregiudicata dei nostri maestri si fondava sulla stessa analisi materialistica della realtà sociale su cui si fonda anche il principio irrinunciabile dell’internazionalismo proletario – un principio scientifico, dunque, non derivante da un’etica metafisica.

Eppure, oggi, molti di coloro che vivono con senso di panico l’eventualità che il “vecchio formulario” internazionalista abbia il sopravvento sull’ora presente; molti di coloro che vivono nel terrore di rimanere “fuori” da una “storia” nella quale non sono mai entrati – malgrado tutti i loro contorcimenti “tattici” à la page – non hanno problemi di coerenza nell’applicare meccanicamente, schematicamente, alla guerra in Ucraina la strategia di Lenin sull’autodecisione delle nazioni dei primi decenni del XX secolo. È molto strano, perché si tratta precisamente di un saggio del cosiddetto astratto “principismo” che rampognano agli altri: un atteggiamento che “astrae” dalla realtà della maturazione imperialista del mercato mondiale e che si appiattisce su un “principio”, quello dell’autodeterminazione nazionale, che, per il socialismo rivoluzionario, è sempre stato subordinato al principio dell’autodeterminazione di classe del proletariato[3].

Se non si esaminano le dinamiche reali e le attuali forze in campo a livello della contesa imperialistica mondiale non si è in grado di comprendere lo scontro in atto in Ucraina, e allora la superficiale somiglianza con fatti e circostanze di una diversa fase dello sviluppo capitalistico conduce chi non vuole o non è in grado di impugnare il metodo marxista – e non ne ha mai condiviso fino in fondo i princìpi cardine – a riproporre semplicemente formulazioni delle quali non si è compresa la genesi teorica e il legame profondo con quella realtà che le ha rese possibili ed efficaci.

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Uno dei “classici” tentativi che si fanno per derubricare una presa di posizione coerentemente internazionalista sulla guerra in Ucraina è accostarla alla visione “luxemburghiana”, contrapponendole le critiche di Lenin all’opuscolo di Junius e operando con arroganza una grossolana equiparazione che solo una lettura molto superficiale può rendere plausibile.

Non sono mancati in questi giorni tentativi in questo senso, corredati da florilegi di citazioni messe insieme con la sublime arte del cherry picking. Ma Lenin scrive:

Può darsi che la negazione delle guerre nazionali in generale sia solo una inavvertenza o un inconscio entusiasmo nel mettere in risalto il concetto del tutto esatto che la guerra attuale è imperialista e non nazionale. Ma siccome è possibile anche il contrario, siccome si nota in diversi socialdemocratici, a causa della falsa presentazione della guerra attuale come guerra nazionale, l’errata negazione di tutte le guerre nazionali, non possiamo non soffermarci su questo errore. Junius ha perfettamente ragione quando mette l’accento sull’importanza decisiva del “carattere imperialista” della guerra attuale, quando afferma che dietro la Serbia c’è la Russia, che “dietro il nazionalismo serbo si erge l’imperialismo russo”, che – per esempio – la partecipazione dell’Olanda alla guerra ha egualmente un carattere imperialista, perché l’Olanda in primo luogo difende le sue colonie e in secondo luogo è alleata di una delle coalizioni imperialiste. Tutto questo è irrefutabile per quel che riguarda la guerra attuale. E quando Junius richiama in modo particolare l’attenzione su quello che a lui sembra l’aspetto più importante del problema – la lotta contro il “fantasma di una guerra nazionale”, “che domina in questo momento la politica socialdemocratica” (p. 81) – non si può non riconoscere che il suo modo di ragionare è giusto e interamente appropriato.[4]

Dunque, per Lenin, Junius/Luxemburg aveva “perfettamente ragione”, e il suo modo di ragionare era “giusto e interamente appropriato” quando metteva l’accento sull’importanza decisiva del “carattere imperialista” della guerra del 1914-1918, quando affermava che dietro il nazionalismo serbo si ergeva l’imperialismo russo e che la partecipazione dell’Olanda alla guerra aveva egualmente un carattere imperialista, perché l’Olanda in primo luogo difendeva le sue colonie e in secondo luogo era alleata di una delle coalizioni imperialiste.

Ebbene, è esattamente quanto affermiamo a proposito dell’attuale guerra in Ucraina. Si tratta di una guerra imperialista su entrambi i fronti nella quale l’elemento nazionale gioca un ruolo del tutto marginale, se si eccettua il suo peso ideologico.

Lenin prosegue:

L’errore sarebbe soltanto di esagerare questa verità, di eludere l’esigenza marxista della concretezza, di estendere la valutazione della guerra attuale a tutte le guerre possibili nell’epoca dell’imperialismo, di dimenticare i movimenti nazionali contro l’imperialismo. L’unico argomento in favore della tesi: “non ci possono più essere guerre nazionali”, è quello che il mondo è oggi diviso tra un pugno di “grandi” potenze imperialiste e che perciò qualsiasi guerra, anche se nazionale ai suoi inizi, si trasforma in guerra imperialista, perché finisce sempre col toccare gli interessi di una delle potenze o delle coalizioni imperialiste. È ovvio che quest’argomento non è giusto. Senza dubbio, il principio fondamentale della dialettica marxista è che tutti i limiti, nella natura e nella società, sono relativi e mobili; che non c’è un solo fenomeno il quale non possa, in determinate circostanze, trasformarsi nel suo opposto. Una guerra nazionale può trasformarsi in guerra imperialista e viceversa.[5]

Ma questa corretta osservazione di Lenin a Junius non ci coinvolge, in quanto non neghiamo in assoluto l’eventualità che in futuro possano riemergere guerre nazionali progressive. È il risultato di un’analisi materialistica, non una qualche assolutizzazione metastorica, che ci induce a riaffermare il principio internazionalista; che ci porta a non riscontrare attualmente movimenti nazionali contro l’imperialismo bensì dentro l’imperialismo. In ogni circostanza valutiamo materialisticamente la realtà delle forze in campo: borghesie nazionali, potenze imperialiste, rapporti di classe, movimenti politici, e, sulla base del punto di vista di classe, ci sforziamo di elaborare delle indicazioni per il proletariato.

Domandiamoci quante nazioni attualmente nel mondo, prescindendo dal dominio economico e finanziario, sono vere e proprie colonie subordinate al dominio politico diretto di un’altra nazione, quante sono incorporate con la violenza all’interno delle frontiere dello Stato di un’altra nazione. Rispondendo a questa domanda inizieremo a farci un’idea delle forme odierne dell’imperialismo e quindi anche delle forme che assume oggi la lotta contro di esso.

Se all’epoca di Lenin il dominio imperialistico si sovrapponeva ancora al precedente dominio coloniale, direttamente politico, oggi il dominio politico dell’imperialismo è prevalentemente mediato dal dominio finanziario. L’imperialismo maturo non si identifica con l’esigenza di colonie precapitalistiche nelle quali “realizzare” il plusvalore prodotto nella madrepatria, e le teorizzazioni “neocolonialiste”, che non colgono nello sfruttamento imperialistico una dinamica di drenaggio di plusvalore tra gradi diversi di sviluppo capitalistico, occultano il dato di fatto che non solo l’imperialismo non necessita minimamente di rapporti di dominazione coloniale, ma che anzi da essi trae nocumento. Infatti, laddove una borghesia sufficientemente vitale e rivoluzionaria è riuscita a scuotersi di dosso il dominio coloniale, direttamente politico, è stato possibile avviare un’industrializzazione che ha enormemente ampliato le possibilità di esportazione di capitale nel mondo da parte dei paesi imperialisti.

Una volta individuate le nazionalità ancora direttamente oppresse dobbiamo esaminare nel concreto la struttura economico-sociale delle regioni in cui si collocano, il loro grado di differenziazione sociale interna, i rapporti tra le classi, i rapporti delle classi con i movimenti politici e i rapporti di questi e di quelle con le varie potenze imperialistiche. Solo a quel punto sarà possibile, da un punto di vista sempre rigorosamente proletario, determinare una politica internazionalista sulla questione nazionale e nella lotta all’imperialismo.

Al giorno d’oggi, le sacche di oppressione nazionale ancora esistenti nel mondo – nelle quali non riteniamo si inserisca l’Ucraina – sono perlopiù confinate nelle zone di faglia dell’imperialismo, nelle intersezioni tra le sfere di influenza delle varie potenze imperialistiche. Il pluridecennale – in certi casi secolare – attrito tra opposti contendenti, senza un decisivo prevalere dell’uno sull’altro, ha trasformato queste aree in “zone grigie” dell’imperialismo, con un’economia strettamente legata alle esigenze dei paesi oppressori e al commercio dei prodotti di un’agricoltura estremamente arretrata. Traffici che arricchiscono prevalentemente una debolissima piccola e media borghesia mercantile, poco o nulla interessata a reinvestire il capitale accumulato e pronta a vendersi al migliore offerente imperialista. In simili circostanze, ben difficilmente si può sostenere che esista una borghesia nazionale rivoluzionaria in grado di condurre conseguentemente una lotta anti-imperialista, e d’altro canto i lavoratori salariati – dal punto di vista della rilevanza sociale più che da quello numerico – sono purtroppo ancora una forza marginale in queste società, dispersi in centinaia di piccolissime e piccole aziende commerciali o del terziario. Evidentemente, l’unica risposta a questa debolezza e alla corruzione di una borghesia compradora che mantiene il suo dominio sociale solo in grazia degli imperialismi a cui alternativamente si vende – mentre contemporaneamente alimenta un fanatismo nazionalista ipocrita – è nella più stretta unione dei lavoratori delle nazionalità oppresse con il proletariato dei paesi oppressori della regione. Un’unione che, se realizzata, non può certamente accontentarsi della mera risoluzione delle “questioni nazionali”.

Come osservava correttamente Lenin

Le singole rivendicazioni della democrazia, compresa l’autodecisione, non sono un assoluto, ma una particella del complesso del movimento democratico (oggi: del complesso del movimento socialista mondiale). È possibile che, in singoli casi determinati, la particella sia in contraddizione col tutto, e allora bisogna respingerla. È possibile che il movimento repubblicano di un paese sia soltanto uno strumento degli intrighi clericali o finanziari, monarchici di altri paesi; allora non dovremo sostenere quel dato movimento concreto; ma sarebbe ridicolo cancellare per questa ragione dal programma della socialdemocrazia internazionale la parola d’ordine della repubblica.[6]

Per tenerci sulle generali, senza dilungarci troppo in approfondimenti che esulano dallo scopo di questa riflessione, riteniamo che tra i “singoli casi determinati” in cui la particella è in contraddizione col tutto si inseriscano ad esempio le questioni nazionali della Palestina e del Kurdistan, per non parlare dell’Afghanistan, che così di recente ha provocato tante paurose sbandate che sono sfociate persino nella barzelletta dei talebani espressione politica di una borghesia “rivoluzionaria” e anti-imperialista.

Tornando all’opuscolo di Junius esaminato da Lenin, in esso, paradossalmente, la Luxemburg tenta di adattare il “programma nazionale” dell’epoca della borghesia ascendente ad una guerra imperialista, e questa posizione, più che alla nostra, ci sembra assomigliare molto a quella di chi inneggia alla “resistenza nazionale” ucraina come “forma di lotta di classe” nelle circostanze attuali.

Per Lenin, infatti, Junius/Luxemburg:

… propone di “contrapporre” alla guerra imperialista il programma nazionale. Propone alla classe d’avanguardia di volger lo sguardo al passato e non all’avvenire! Nel 1793 e nel 1848, in Francia, in Germania e in tutta l’Europa, obiettivamente era all’ordine del giorno la rivoluzione democratica borghese. A questa situazione storica obiettiva corrispondeva il programma “effettivamente nazionale”, cioè nazionale borghese, della democrazia del tempo, programma attuato nel 1793 dagli elementi più rivoluzionari della borghesia e della plebe, programma sostenuto nel 1848 da Marx a nome di tutta la democrazia d’avanguardia. Alle guerre feudali e dinastiche si contrapposero allora, obiettivamente, le guerre democratiche rivoluzionarie, le guerre di liberazione nazionale. Tale era l’essenza dei compiti storici del tempo. Oggi, la situazione obiettiva dei maggiori Stati progrediti d’Europa è diversa. Uno sviluppo progressivo – astrazione fatta dai possibili, temporanei passi indietro – è realizzabile soltanto in direzione della società socialista, della rivoluzione socialista. Alla guerra borghese imperialista, alla guerra del capitalismo altamente sviluppato, obiettivamente sipuò soltanto contrapporre, dal punto di vista progressivo, dal punto di vista della classe d’avanguardia, la guerra contro la borghesia, vale a dire, innanzi tutto, la guerra civile del proletariato contro la borghesia per il potere, la guerra senza la quale non è possibile un serio movimento progressivo, e poi – solo in determinate circostanze particolari – una eventuale guerra in difesa dello Stato socialista contro gli Stati borghesi. Perciò, quei bolscevichi […]che erano disposti ad accettare il punto di vista della difesa a certe condizioni, della difesa della patria a condizione della vittoria della rivoluzione e della repubblica in Russia, restavano fedeli alla lettera del bolscevismo, ma ne tradivano lo spirito, giacché la Russia, anche se fosse repubblicana, partecipando alla guerra imperialista delle potenze progredite dell’Europa condurrebbe pur sempre una guerra imperialista! Dicendo che la lotta di classe è il mezzo migliore contro l’invasione, Junius ha applicato la dialettica marxista solo a metà; ha fatto un passo sulla via giusta e se ne è subito scostato. La dialettica marxista esige l’analisi concreta di ogni situazione storica particolare. Che la lotta di classe sia il mezzo migliore contro l’invasione, è vero sia nei riguardi della borghesia che abbatte il feudalesimo, sia nei riguardi del proletariato che abbatte la borghesia. E appunto perché è vero nei riguardi di ogni oppressione di classe, ciò è troppo generico e dunque insufficiente nei riguardi di questa situazione particolare. La guerra civile contro la borghesia è anche uno degli aspetti della lotta di classe, e solo questo aspetto della lotta di classe potrebbe risparmiare all’Europa (a tutta l’Europa e non a un solo paese) il pericolo di una invasione. La “repubblica grande-tedesca”, se fosse esistita nel 1914-1916, avrebbe condotto la stessa guerra imperialista.[7]

Lenin è cristallino: la lotta di classe è il mezzo migliore contro l’invasione ma l’aspetto della lotta di classe che solo può risparmiare a tutta l’Europa – oggi diremmo quindi anche all’Ucraina – il pericolo di un’invasione è la guerra civile contro la borghesia.

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La bellezza di un secolo fa sempre Lenin affermava che

L’imperialismo è la fase suprema dello sviluppo del capitalismo. Il capitale ha sorpassato nei paesi avanzati i limiti degli Stati nazionali, ha sostituito alla concorrenza il monopolio, creando tutte le premesse oggettive per l’attuazione del socialismo. Perciò nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti la lotta rivoluzionaria del proletariato per l’abbattimento dei governi capitalistici e per l’espropriazione della borghesia è all’ordine del giorno.[8]

È lecito domandarsi se, in più di cento anni, l’area in cui “la lotta rivoluzionaria del proletariato per l’abbattimento dei governi capitalistici e per l’espropriazione della borghesia era all’ordine del giorno” si sia ampliata o se sia rimasta confinata all’Europa occidentale e agli Stati Uniti. La risposta a questa domanda segna uno spartiacque tra i marxisti e coloro che rivendicano una presunta analisi “concreta della realtà concreta” solo quando i “princìpi” non corrispondono ai loro desideri… o interessi, e inversamente citano i classici – senza coglierne il metodo o alterandoli – quando devono conferire il manto dell’autorevolezza ai loro desideri… o interessi.

Se Lenin poteva correttamente riscontrare un cambiamento rispetto all’epoca di Marx ed Engels, con lo sviluppo dell’imperialismo, con i suoi connotati di spartizione del mondo in colonie e sfere d’influenza, con il ridursi delle aree del pianeta nelle quali i compiti democratico-borghesi erano risolvibili da rivoluzioni nazionali, per contro, oggi, rispetto a più di un secolo fa, si respinge l’analisi concreta delle diverse realtà nazionali nell’imperialismo maturo; si respinge l’evidenza di rivendicazioni nazionali costruite artificialmente dall’imperialismo o che assumono un rilievo esclusivamente perché impugnate dalle varie potenze imperialistiche nella loro contesa; si nega la debolezza e la compromissione di borghesie di alcune nazionalità ancora senza Stato e la debolezza del proletariato nelle no man’s land imperialiste, dove la sovrapposizione di molteplici interessi crea grovigli nazionali che allo stato attuale non sono risolvibili da un punto di vista nazionale. Che siano poi irrisolvibili per sempre all’interno dei rapporti capitalistici di produzione non è sostenibile in assoluto, proprio perché il materialismo storico permette di comprendere che ogni limite è relativo, transitorio[9], così come permette di comprendere che applicare pedissequamente la linea tattica di un precedente ciclo significa non cogliere la metodologia che ha permesso di elaborare questa linea e nella pratica significa tradirne il significato profondo, procurando un danno alla classe operaia internazionale.

Invece dell’ossequio pedante e interessato ad uno schema, sarebbe il caso di riconoscere che l’elemento nazionale per Lenin, come per Marx ed Engels, svolge un ruolo esclusivamente se subordinato al punto di vista di classe, se rafforza la lotta di classe. La nazione (intesa come Stato-nazione) è una categoria transitoria che può essere utile all’interno del processo storico che tende a farla scomparire. In questo soltanto risiede il suo peso. Questa categoria per i comunisti non ha nessun valore in sé.

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Abbiamo sostenuto, continuiamo, e continueremo a sostenere, che la guerra in Ucraina è una guerra imperialista su entrambi i fronti. Spieghiamoci meglio. Non può essere l’indiscutibile aggressione russa e l’invasione del territorio ucraino a determinare da sola la natura imperialistica di questa guerra, perché nessuna guerra esclude l’aggressione e l’invasione. Le guerre dell’antichità vedevano aggressioni ed invasioni senza essere imperialiste, le guerre feudali e dell’assolutismo altrettanto, le guerre rivoluzionarie e persino le guerre di liberazione nazionale contemplano la possibilità di attaccare preventivamente il nemico e di invaderne il territorio per sconfiggerlo nei suoi centri di potere. D’altro canto, la difesa del territorio nazionale contro l’invasione di truppe nemiche non è sufficiente per definire una guerra di liberazione nazionale; nel 1914 la Francia vide parte del suo territorio invasa dalle truppe dell’impero tedesco, nondimeno, la sua “resistenza” non usciva dal quadro di una guerra imperialista. Ci si obietterà che l’Ucraina non è la Francia del 1914, giustissimo, ma neanche l’Ucraina è più la stessa del 1914 e soprattutto l’estensione mondiale dello stadio imperialistico del capitalismo – con tutto ciò che ne consegue – non è più quella del 1914, e da un pezzo. Sarebbe il caso di fare una buona volta i conti con questa realtà.

Per il capitalismo, sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. [10]

Se nel 1915 per Lenin “quasi tutto il globo” era imperialisticamente diviso, cosa possiamo osservare oggi se non la completa spartizione del globo, non più in forma di colonie – dalle quali sono sorti nuovi Stati pienamente capitalistici e addirittura nuove potenze imperialistiche – ma sempre più “mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri”?

Sebbene l’Ucraina non possa definirsi una potenza imperialista, il suo governo borghese è o non è reazionario[11]? Sarebbe corretto definirla un paese coloniale dominato dall’arretratezza semifeudale – come nel 1915 il Marocco, l’India, la Persia o la Cina? L’Ucraina è o non è un paese capitalistico legato con mille fili all’imperialismo mondiale? È o non è invischiata in una rete di alleanze imperialiste la cui fluidità ha permesso all’imperialismo russo di aggredirla per ora senza scatenare l’intervento militare diretto dell’imperialismo americano o tedesco, o francese, o italiano? È o non è un paese capitalistico che sfrutta la propria classe operaia e che opprime la minoranza russofona all’interno del proprio territorio? In questo caso specifico, la qualifica di guerra “difensiva” o di “difesa della patria” non

costituirebbe una falsificazione storica e, in pratica, solo un inganno del popolo semplice, della piccola borghesia, della gente ignorante, da parte degli astuti padroni di schiavi?[12]

L’Ucraina, che opprime minoranze, che oltre ad esserne oggetto è anche una pedina nel gioco delle potenze imperialiste, sta oggi conducendo una lotta contro l’oppressione straniera? Riteniamo che in questo caso l’aspetto nazionale della resistenza contro l’invasione russa abbia un ruolo marginale rispetto al quadro generale, fondamentalmente imperialista, del conflitto. Quale libertà difende la borghesia ucraina che conduce la guerra anti-russa? La libertà dall’imperialismo? Ma la libertà dall’imperialismo russo implica la libertà dall’imperialismo americano, da quello delle potenze europee o dalla Cina? Il fatto che l’Ucraina non abbia raggiunto la maturità imperialistica, il punteggio pieno dei “cinque contrassegni” di Lenin, può nascondere il fatto che essa sta combattendo, sulla difensiva, per procura, una guerra imperialista che in altre circostanze poteva essere offensiva? E non potrebbe essere ritenuto un atto offensivo permettere che sul proprio territorio vengano create basi militari e missilistiche per una o più potenze imperialiste contro altre? Che sul proprio territorio vengano eseguite manovre ed esercitazioni militari congiunte con gli eserciti di una o più potenze imperialiste contro altre?

Si potrà obiettare che l’adesione dell’Ucraina ad una sfera di influenza imperialistica piuttosto che ad un’altra rappresenta una sua “libera scelta”, ratificata da tutti gli strati della popolazione in libere elezioni che hanno democraticamente conferito il loro mandato a quei governi ucraini che hanno operato tale “scelta”. Sarebbe tutto molto edificante se, da marxisti, non sapessimo che le ideologie dominanti sono quelle della classe dominante e che, nella democrazia borghese dell’epoca imperialista, non è l’interesse della classe dominata ad esprimersi nelle elezioni ma quello delle principali frazioni borghesi che utilizzano tutto il loro armamentario di partiti, movimenti politici, giornali, televisioni, istituzioni culturali ecc. per trasformare il “loro” interesse in una “libera e volontaria scelta” della classe dominata.

La borghesia ucraina ha “scelto” a quale corruttore imperialista vendersi, al proletariato ucraino l’onere di subire le conseguenze delle sue scelte, qualunque esse siano. Che si tratti di scegliere di far parte della sfera d’influenza dell’imperialismo russo, più debole e meno in grado di esportare capitali in Ucraina, o di far parte della sfera d’influenza degli USA o delle potenze europee – senza dimenticare gli importanti rapporti commerciali con la Cina – scatenando una reazione militare di Mosca che, se vogliamo, è esemplarmente indicativa della debolezza dell’imperialismo russo che – a dispetto delle bambinate a proposito della follia, dell’irrazionalità o dell’erroneità dei calcoli di Vladimir Putin – non è stata in grado di continuare la propria politica “con altri mezzi” che non fossero quelli militari.

Per chi vuole intendere: non si tratta in alcun modo di “giustificare” l’aggressione imperialistica russa, quanto di evidenziare le cause profonde di questa guerra e la sua natura imperialistica su tutti i fronti, egualmente condannabili dal proletariato internazionale, quali che siano i reciproci rapporti di forza tra le potenze imperialiste coinvolte, direttamente e indirettamente.

La borghesia ucraina sta lottando per condividere con le potenze imperialiste alle quali si è legata il privilegio di sfruttare il proletariato ucraino. La borghesia ucraina, non imperialista secondo i canoni economici, sta combattendo una guerra imperialista contro un altro imperialismo, che la aggredisce per riportarla nella propria sfera d’influenza o per neutralizzarla dopo averne annesso parte del territorio.

Al di là dell’esistenza o meno in Ucraina di elementi di autocoscienza proletaria in grado di comprendere questo dato fondamentale e di agire conseguentemente – elementi che, ammesso che esistano, purtroppo non sembrano attualmente essere in grado di mutare il quadro complessivo – sostenere la “resistenza” ucraina, borghese e assolutamente non anti-imperialista, per i proletari ucraini significa oggettivamente “aiutare il «proprio» governo nelle situazioni difficili, invece di utilizzare le sue difficoltà nell’interesse della rivoluzione”[13]. Ostinarsi a negarlo, da parte di varie organizzazioni che in tutto il mondo si richiamano al marxismo è opportunismo, è socialsciovinismo. E non ci si può considerare scagionati da questa accusa solamente in virtù del fatto che non è – per il momento – il nazionalismo della propria borghesia quello al quale si tenta di aggiogare un reparto della nostra classe mondiale.

Sulla base dell’attuale guerra è impossibile aiutare l’Ucraina, ovvero la sua borghesia, se non contribuendo a soffocare il proletariato sia ucraino che russo. In questo consiste la guerra imperialista, la guerra fra governi borghesi reazionari, storicamente superati, guerra condotta per l’oppressione in primis del proletariato di altre nazioni. Mai come oggi sono validi il monito e la consegna di Lenin:

Chi giustifica la partecipazione all’attuale guerra, perpetua l’oppressione imperialista delle nazioni. Chi consiglia di sfruttare le attuali difficoltà dei governi ai fini della lotta per la rivoluzione sociale, difende realmente la libertà di tutte le nazioni raggiungibile solo col socialismo.[14]

In quanto comunisti e internazionalisti riconosciamo e difendiamo il diritto delle nazioni oppresse all’autodecisione, sempre. Riconoscere e difendere questo diritto non significa però ammettere oggi, nelle condizioni attuali dello stadio imperialistico, un benché minimo ruolo progressivo delle borghesie nazionali delle nazionalità oppresse; non significa dimenticare il ruolo preponderante delle potenze imperialiste; non significa ritenere che, nei vari scenari di oppressione nazionale ancora oggi esistenti, date le attuali circostanze, esista la possibilità concreta di ottenere quest’autodecisione senza un intervento imperialistico diretto o indiretto, o senza una mobilitazione rivoluzionaria del proletariato, nazionale o regionale.

In quanto comunisti e internazionalisti denunciamo l’uso strumentale delle questioni nazionali da parte delle potenze imperialistiche e quello altrettanto strumentale di organizzazioni e gruppi di una certa sinistra piccolo-borghese che, appoggiando l’una piuttosto che l’altra rivendicazione nazionale, e nella misura in cui possiedono una qualche influenza sulla classe operaia, la legano precisamente agli interessi dell’una o dell’altra potenza imperialista. In quanto comunisti e internazionalisti subordiniamo la rivendicazione all’autodeterminazione nazionale a quella di classe, che, nelle attuali circostanze concrete, riteniamo essere la sola alternativa alla sistemazione imperialistica delle questioni nazionali ancora irrisolte. Una sistemazione che, lungi dal risolverle, non può fare che inasprirle, magari rovesciandone il segno.

Attualmente, valutando ogni singola questione nazionale aperta, riteniamo che l’unico modo per il proletariato di combattere un’oppressione imperialista straniera è quello di farla finita con la propria borghesia, venduta e alleata all’uno o all’altro dei contendenti di un sistema imperialistico che afferma di voler combattere. Il proletariato oggi non può essere coerentemente anti-imperialista se non liquida preventivamente la propria borghesia; non può combattere un qualsiasi nemico esterno se si sottomette alle esigenze di quello interno.

È innegabile che anche nella guerra in corso in Ucraina si presentino degli elementi di oppressione nazionale, anzi, questi elementi si manifestano con il procedere di qualsiasi guerra imperialista, ma altrettanto innegabile è che il carattere predominante di questa guerra non è quello di una lotta di “liberazione nazionale”, perché la libertà economica e politica dell’Ucraina era assai relativa anche prima dell’invasione russa e sicuramente non si libererà dal dominio imperialista con la sconfitta del solo imperialismo russo.

Ad ogni modo, di certo non contribuisce in nessun modo a rendere coscienti eventuali e per ora assai remoti “stati d’animo rivoluzionari” nel proletariato ucraino, ad “approfondirli e precisarli”[15], la parola d’ordine della sua partecipazione ad una “resistenza” che è solo la partecipazione ad una guerra imperialista condotta per procura dalla borghesia ucraina; nella prospettiva, questo compito può avere qualche speranza di essere adempiuto solo dall’inflessibile denuncia della guerra come guerra imperialista, dalla decisa riaffermazione dell’internazionalismo proletario e

… dalla parola d’ordine di trasformare la guerra imperialista in guerra civile; ed ogni lotta di classe conseguente in tempo di guerra, ogni tattica di “azione di massa” seriamente applicata, conduce inevitabilmente a questo.[16]

Prima che qualcuno si lanci in avventati paragoni tra la situazione attuale in Ucraina e la guerra che nel 1871 condusse alla sollevazione del proletariato parigino e alla proclamazione della Comune, è opportuno ricordare quanto scriveva Lenin sempre ne Il socialismo e la guerra:

Mezzo secolo fa il proletariato era troppo debole, le condizioni obiettive del socialismo non erano ancora maturate, il collegamento e la collaborazione dei movimenti rivoluzionari in tutti i paesi belligeranti non poteva esistere. La simpatia di una parte degli operai di Parigi per le “ideologie nazionali” (tradizione del 1792) era una loro debolezza piccolo-borghese, rilevata a suo tempo da Marx: fu questa una delle ragioni della sconfitta della Comune. A distanza di mezzo secolo, le condizioni che indebolirono la rivoluzione di allora non esistono più, e attualmente sarebbe imperdonabile per un socialista tollerare la rinuncia ad agire precisamente nello spirito dei comunardi parigini.

Oggi, a distanza di centocinquanta anni, le condizioni obiettive del socialismo esistono su scala mondiale, ma, come allora – anzi, meno di allora – non esiste il collegamento e la collaborazione dei movimenti rivoluzionari in tutti i paesi belligeranti, o peggio, non esistono nemmeno i movimenti rivoluzionari, e il proletariato è completamente assuefatto alle “ideologie nazionali”. A maggior ragione è oggi imperdonabile per un socialista tollerare che si predichi la rinuncia ad agire precisamente nello spirito dei comunardi parigini, che hanno rivolto i loro fucili e i loro cannoni – che furono acquistati con sottoscrizioni operaie e che non furono loro consegnati dalla borghesia, proprio perché non riteneva di potersi fidare del loro patriottismo (a differenza di quanto avviene oggi in Ucraina) – contro il nemico interno prima che contro i prussiani di turno.

Nel 1956, in Ungheria, i proletari che si opposero fucile alla mano al capitalismo di stato e ai carri armati dell’imperialismo sovietico possedevano una forma embrionale di autonomia di classe. Venne infatti organizzata una rete di consigli operai in tutti i centri industriali del paese, arrivando in pochi giorni alle soglie di un dualismo di poteri che fu riassorbito dall’espressione politica del capitale ungherese (rappresentata da Nagy) che, anche in quel caso, manovrava per il compromesso con l’imperialismo. Questi consigli operai rivendicavano aumenti salariali, abolizione delle “norme” schiaviste in fabbrica, abolizione della gerarchia dei salari, l’autogestione operaia nelle fabbriche, la ritirata delle forze armate russe e, nella maggior parte dei casi, a Budapest, a Sopron, a Miskolc, la formazione di una “repubblica dei consigli”. Le milizie operaie che combatterono con molotov e fucili contro i tank sovietici, pur sventolando bandiere nazionali, non rinunciarono a tentativi di fraternizzare con i soldati russi indirizzando loro volantini con frasi di Marx nel segno dell’internazionalismo proletario.

Oggi, c’è chi vuole spacciare l’armamento e l’inquadramento anche degli operai nell’esercito nazionale e nelle milizie nazionaliste ucraine come un passo verso l’indipendenza di classe del proletariato, ed esprime noia ed insofferenza verso i “preteschi” appelli internazionalisti. Per difendere a tutti i costi questa tesi preconfezionata si è arrivati a inventare che nella lotta contro l’invasore russo la “resistenza” ucraina abbia travalicato i limiti ad essa imposti dal controllo della borghesia ucraina – e non dimentichiamoci di quello degli imperialismi che la sostengono, finanziariamente e con aiuti militari di ogni tipo – sull’esercito e sulle milizie nazionali; si è arrivati a sostenere che il fatto che gli operai ucraini partecipino attivamente alla conversione delle fabbriche alla produzione bellica – fabbriche delle quali non ci risulta abbiano neanche per ipotesi messo in discussione la proprietà borghese o statal-borghese – avrebbe sconvolto i piani dell’imperialismo mondiale; si è arrivati a inventare che le milizie territoriali nazionaliste, ausiliarie dell’esercito nazionale e, come questo, controllate dai quadri militari della borghesia ucraina e degli imperialismi ad essa alleati, siano delle “squadre di autodifesa”… di cosa? delle vite degli operai? delle loro case? Saremmo i primi a salutarle con entusiasmo e a sostenerle con ogni mezzo a disposizione se esistessero, ma così come una ciliegina candita non trasforma un secchio di letame in una torta al cioccolato, la natura di classe del conflitto in Ucraina non muta di una virgola in virtù dell’esistenza di un “comitato di resistenza” intitolato all’anarchico Nestor Machno (ammesso che possa considerarsi una ciliegina), di cui non si conoscono consistenza e composizione e che è noto esclusivamente per ciò che esso dice di sé stesso su internet. A onor del vero quel che questo “comitato machnovista” intende per internazionalismo proletario ci lascia per ora ben poche speranze. Si invita il “popolo” russo ad insorgere contro il proprio tiranno, e fin qui, fatto salvo il generico destinatario dell’invito, si potrebbe convenire, il problema è che un analogo invito non viene rivolto alla classe operaia ucraina, la cui consegna è esclusivamente quella di battersi contro il tiranno russo. Dunque, non si tratta nemmeno di un discutibile “vai avanti tu che io ti seguo” ma addirittura di un: “il nemico è solo quello di casa tua”. Questo “internazionalismo” è perfettamente compatibile con le esigenze della borghesia ucraina, con le esigenze delle potenze imperialistiche che la sostengono a distanza e persino con quelle dell’imperialismo russo. Non è certamente nell’interesse della classe operaia averci nulla a che fare.

***

Indubbiamente, senza lotta contro ogni oppressione nazionale non è possibile raggiungere l’“alto obiettivo dei socialisti”[17], ma la lotta contro ogni oppressione nazionale non si identifica con la partecipazione del proletariato della nazione oppressa ad ogni guerra che non abbia questo carattere come predominante. Inoltre, se è un dovere per un comunista riconoscere il diritto di autodeterminazione dei paesi oppressi dal suo, perché questo arreca indiscutibilmente un danno al proprio imperialismo, appoggiare incondizionatamente ogni rivendicazione all’autodeterminazione di nazionalità oppresse da paesi terzi può non essere così innocente e altruista come appare. Anzi, può inserirsi perfettamente nella logica della contesa tra potenze imperialiste, a favore delle une o delle altre. Non è un caso che alcune questioni nazionali restino costantemente al di fuori delle considerazioni di una certa “sinistra”.

Lenin scrive:

Il fatto che la lotta per la libertà nazionale contro una potenza imperialista può essere utilizzata, in certe condizioni, da un’altra “grande” potenza per i suoi scopi egualmente imperialisti, non può costringere la socialdemocrazia a rinunziare al riconoscimento del diritto di autodecisione delle nazioni…[18]

Lenin è molto chiaro su questo punto. Ma la chiarezza non sempre evita la distorsione interessata. A Lenin preme rimarcare che i comunisti di una nazione che opprime potrebbero facilmente giustificare il proprio appoggio all’oppressione nazionale affermando che i fili del moto indipendentista della nazione oppressa dal loro paese sono tirati da altre potenze imperialiste concorrenti. Il che può anche essere vero – ed oggi, in linea di massima, lo è – nondimeno, i comunisti delle nazioni che opprimono hanno il dovere di riconoscere il diritto all’autodeterminazione delle nazionalità oppresse innanzitutto dal loro paese, sempre, persino nel caso di una guerra il cui carattere fondamentale non sia quello della liberazione nazionale. Solo così si potrà avere la certezza che quei comunisti non facciano effettivamente concessioni alla loro borghesia. Attenzione però, ciò non implica per essi il dovere di esigere che eventuali comunisti del paese oppresso mettano invece il proletariato al servizio della propria borghesia nazionale[19]. Per Lenin i comunisti della nazione oppressa non devono permettere in alcun modo che i proletari si facciano strumenti dell’uno o dell’altro degli imperialisti concorrenti, ma questo è possibile solo se essi conservano la necessaria indipendenza di classe.

Ultimamente ci sono capitati sotto gli occhi degli azzardati paragoni tra l’invio di armi all’Ucraina, da parte della NATO e delle potenze europee, e l’invio di armi all’Irlanda da parte del Reich tedesco durante la Prima guerra mondiale. Per dirla fuori dai denti: sarebbe ora di finirla una buona volta con la truffa ricorrente di rievocare l’insurrezione irlandese ogni volta che si vuole indorare la pillola socialsciovinista. Nel 1916 l’Irlanda era un paese in lotta contro un dominio coloniale plurisecolare che ne aveva atrofizzato il pieno sviluppo capitalistico, non un paese formalmente indipendente, ampiamente industrializzato, con centrali nucleari, che opprime minoranze e con classi sociali da lungo tempo definite e contrapposte come l’attuale Ucraina. Lenin salutò favorevolmente la Easter Rising del 1916 in quanto riteneva – sulla base delle informazioni di cui disponeva – che alla sua direzione vi fosse, oltre ad una parte della piccola borghesia nazionalista radicale e degli operai arretrati, con tutti i loro “pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori” anche “l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato”, presumibilmente rappresentato dall’Irish Citizen Army del socialista James Connolly. Ed è assolutamente vero che Connolly entrò nella direzione del movimento insurrezionale, ma è altrettanto vero che egli non rispettò un criterio fondamentale evidenziato da Lenin qualche anno dopo, forse anche proprio in considerazione degli eventi irlandesi:

… l’Internazionale comunista deve sostenere i movimenti democratici borghesi nazionali nelle colonie e nei paesi arretrati solo a condizione che, in tutti i paesi arretrati, gli elementi dei futuri partiti proletari – comunisti di fatto e non soltanto di nome – siano raggruppati ed educati nella coscienza dei loro compiti particolari, consistenti nella lotta contro i movimenti democratici borghesi in seno alla loro nazione. L’Internazionale comunista deve concludere alleanze provvisorie con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma non deve fondersi con essa e deve assolutamente salvaguardare l’autonomia del movimento proletario persino nella sua forma embrionale.[20]

Per quanto infatti Connolly per lunghi anni abbia impostato molto correttamente la questione nazionale irlandese con criteri di classe e internazionalisti, proprio nel corso della Prima guerra mondiale passò dalla posizione: “We serve neither King nor Kaiser, but Ireland” ad una che lo portò a sostenere pubblicamente, nell’articolo Il Kaiser e i socialisti del 4 dicembre 1915 – riferendosi all’intervista a Guglielmo II da parte del socialdemocratico tedesco Anton Friedrich, che essa

… mostra il sovrano sotto una nuova luce. L’autore dice che il monarca ha completamente cambiato le sue opinioni nei confronti dei socialisti e ora li considera “splendidi compagni”, almeno la maggior parte di loro […] Nessuno può aspettarsi che le opinioni del Kaiser siano quelle di un radicale o di un socialista, ma non c’è dubbio che egli capisca molto meglio gli obiettivi della sinistra radicale in Parlamento e abbia per loro più simpatie di quanto il mondo sappia.[21]

Per la cronaca, stiamo parlando dello stesso Friedrich Wilhelm Viktor Albrecht von Hohenzollern che, nel celebre “discorso degli Unni” pronunciato nel 1900 in occasione della partenza dei soldati tedeschi per la Cina, dove avrebbero represso nel sangue la ribellione dei Boxer, affermò:

Non si concede perdono, non si fanno prigionieri! Come mille anni or sono gli Unni, sotto il re Attila, si fecero un nome che li fa apparire ancora oggi formidabili nella tradizione e nella leggenda, possa così il nome di “tedesco”, in Cina, per mezzo vostro, acquistare per mille anni tale reputazione, in modo che un cinese non osi mai più nemmeno guardare di traverso un tedesco.

Stiamo parlando dello stesso Kaiser che raccomandava ai soldati tedeschi di tenersi “pronti a sparare sulle proprie madri, se necessario”, in caso di “disordini” interni. È assai difficile che Connolly ignorasse queste tangibili effusioni di “simpatia” del Kaiser…

Come scrive Liam O’Ruairc:

Non c’è dubbio che dal settembre 1914 Connolly non solo desiderava una vittoria tedesca sulla Gran Bretagna, ma elogiava anche la Germania come uno Stato moderno e progressista in cui risiedeva la “classe operaia più istruita del mondo, il maggior numero di giornali sindacali, il maggior numero di parlamentari e rappresentanti locali eletti su una piattaforma della classe operaia, il maggior numero di elettori socialisti: tutto questo era un indice infallibile dell’alto livello di intelligenza della classe operaia tedesca, nonché della loro forte posizione sia politica che industriale. Questo è quanto Connolly indicò come “l’alta civiltà dell’intera nazione tedesca. Su questa formula la Germania ha posto il suo successo nel commercio. E il suo successo in guerra”. Connolly credeva che la Germania avrebbe vinto la guerra. Sentiva che i successi bellici tedeschi erano dovuti alla natura “socializzata” del paese e ad essa contrapponeva l’immagine dei “cosacchi selvaggi” della Russia che rapivano le figlie di una razza che era alla “testa della civiltà cristiana”. Queste opinioni sono evidenti fin dall’inizio della guerra.[22]

In fondo non si tratta di altro che delle stesse argomentazioni usate dai socialpatrioti tedeschi per giustificare la loro adesione alla guerra del proprio imperialismo.

Come scriveva Lenin, che a Connolly e all’insurrezione di Dublino dedicò in fondo assai ben poche pagine, funzionali a una ben precisa battaglia politica

Sono da annoverare tra i socialsciovinisti sia coloro che giustificano e mettono in buona luce i governi e la borghesia di uno dei gruppi di potenze belligeranti, sia coloro che, come Kautsky, riconoscono ai socialisti di tutte le potenze belligeranti lo stesso diritto di “difendere la patria”.[23]

Ci sembra indiscutibile che l’internazionalismo di Connolly, nei suoi ultimi anni, abbia fortemente vacillato (per essere indulgenti con qualcuno che, quantomeno, ha rischiato e perso la propria vita, a differenza dei socialsciovinisti tedeschi, o francesi o inglesi…) e che egli si sia molto allontanato da una valutazione della Prima guerra mondiale come guerra imperialista su tutti i fronti, quello dell’Intesa come quello degli Imperi centrali. Il sostegno militare e finanziario – peraltro limitato – da parte del Reich tedesco al moto indipendentista irlandese non poteva giustificare l’abbandono di una posizione internazionalista di classe per sostituirla con l’appoggio all’uno o all’altro dei predoni in conflitto. Lenin arrivò in Russia con l’aiuto dello Stato maggiore germanico ma non fece commercio di princìpi con l’imperialismo tedesco. Non diede il minimo serio appiglio all’accusa di essere un “agente del Kaiser”, per quanto di questo lo accusassero tutti i socialsciovinisti. Quanto alle armi, il problema non è la loro provenienza ma il loro utilizzo. Se si spinge il proletariato a fare uso di armi fornite dall’imperialismo subordinandolo agli interessi della borghesia nazionale – quand’anche oppressa – automaticamente lo si pone anche al servizio dell’imperialismo che a questa borghesia le ha fornite. Se, al contrario, si conserva l’indipendenza di classe, le armi possono venire persino da casa del diavolo, perché verranno usate contro la borghesia nazionale e contro l’imperialismo. Purtroppo Connolly e i socialisti irlandesi abdicarono all’indipendenza di classe del proletariato fondendosi con i nazionalisti borghesi alle loro condizioni e subordinando la classe operaia alle loro esigenze. Una delle conseguenze più tragiche dell’insurrezione fu che venne spazzato via il nucleo dei socialisti rivoluzionari irlandesi, e questo solamente un anno prima dello scoppio della rivoluzione in Russia. Quando in Irlanda si alzò la successiva ondata di lotte, nel 1919-22, rimanevano solamente gli atomi dispersi di un’autocoscienza proletaria che potesse influenzare gli eventi. Le conseguenze di ciò sono ancora visibili nella divisione dell’Irlanda. Sarebbe il caso di ragionare su questo, invece di raccogliere citazioni “selezionate”.

Per Lenin, e per gli internazionalisti conseguenti, quel che i comunisti possono e devono fare in ogni situazione di oppressione imperialista è tentare di organizzare il proletariato del paese oppressore in collegamento con quello del paese oppresso, premere sulla propria borghesia affinché riconosca il diritto all’autodeterminazione della nazione oppressa o, nella migliore delle ipotesi, abbattere la borghesia dello Stato oppressore e garantire questo riconoscimento; i comunisti internazionalisti hanno poi il dovere di solidarizzare e di aiutare concretamente il proletariato della nazione oppressa quando questo proletariato combatte contro l’esercito dello Stato oppressore da una posizione di indipendenza di classe; hanno sempre il dovere di augurarsi e di accelerare, se possibile, la sconfitta del proprio esercito mediante la lotta di classe, al fronte e nelle retrovie, contro la propria borghesia e il proprio Stato ma mai quello di suggerire al proletariato della nazione oppressa che debba sospendere la lotta contro la propria borghesia; che sia corretto abbracciare, ideologicamente o di fatto, il nazionalismo e l’odio verso l’indifferenziata nazionalità del paese oppressore, che è fatta anch’essa di classi contrapposte.

Oggi, se le circostanze lo permettessero, i proletari russi dovrebbero reclamare il ritiro unilaterale dall’Ucraina, senza se e senza ma, promuovere la sconfitta del proprio esercito prescindendo dal comportamento del proletariato ucraino, ma, specularmente, il dovere internazionalista dei proletari ucraini imporrebbe loro di combattere in primo luogo contro la propria borghesia se vogliono combattere realmente contro l’imperialismo russo. E questa lotta non può prescindere da tentativi di collegamento con i proletari russi. Una lotta contro l’imperialismo russo che non sia anche lotta contro la borghesia nazionale è solamente la partecipazione ad una guerra imperialista per procura, che l’invasione del territorio permette a qualcuno di camuffare come “guerra nazionale”.

***

Quali indicazioni pratiche, concrete, possiamo dare però, come comunisti internazionalisti, ai nostri fratelli proletari ucraini stretti fra il martello delle bombe e delle incursioni dell’esercito russo e l’incudine dell’arruolamento coatto o indotto dal fanatismo ideologico che si incista sulle loro sofferenze reali? Quali indicazioni pratiche possiamo dare a quei padri, mariti, figli proletari ucraini che stanno disertando l’arruolamento forzato nell’esercito e nelle milizie perché non vogliono morire e non vogliono uccidere su comando, e perché ritengono che la diserzione e la renitenza siano un modo di difendere le loro vite e quelle dei propri cari più concreto e meno retorico del farsi mandare al macello? Quali indicazioni possiamo dare alle madri proletarie ucraine e russe che stanno perdendo mariti e figli e a quelle ucraine che sono costrette a fuggire a piedi o con mezzi di fortuna trascinandosi dietro bambini denutriti e i pochi averi che hanno salvato dalle macerie?

Se in Ucraina e in Russia esistesse un soggetto autonomo di classe, una forma anche debole ma indipendente di organizzazione del proletariato, non avremmo dubbi, risponderemmo come già Lenin nel 1916:

La militarizzazione invade oggi tutta la vita sociale. L’imperialismo è la lotta accanita delle grandi potenze per la divisione e la ripartizione del mondo: esso deve quindi estendere inevitabilmente la militarizzazione a tutti i paesi, non esclusi i paesi neutrali e le piccole nazioni. Come reagiranno a questo le donne proletarie? Si limiteranno a maledire tutte le guerre e tutto ciò che riguarda la guerra, rivendicando il disarmo? Le donne di una classe oppressa veramente rivoluzionaria non accetteranno mai una funzione così vergognosa. Esse diranno ai loro figli: «Presto sarai cresciuto. Ti daranno un fucile. Prendilo e impara a maneggiar bene le armi. È una scienza necessaria ai proletari. No, non per sparare sui tuoi fratelli, sugli operai degli altri paesi, come accade in questa guerra e come ti consigliano di fare i traditori del socialismo, ma per combattere contro la borghesia del tuo paese, per mettere fine allo sfruttamento, alla miseria e alle guerre, non con le pie intenzioni, ma piegando la borghesia e disarmandola».[24]

Il proletariato cosciente, nella guerra imperialista, non può non scorgere il legame che intercorre fra gli insuccessi militari del proprio Stato e la maggior facilità di abbatterlo [25].

Purtroppo invece, il pensiero palese anche di qualche elemento incosciente della nostra classe, non è quello di indicare al proletariato ucraino, quantomeno in prospettiva, la necessità di approfittare degli insuccessi militari del governo della propria borghesia per abbatterlo, ma di unirsi a questo governo, di combattere per esso e a fianco di esso con la pretesa che quest’azione conduca miracolosamente ad un suo rafforzamento in termini di indipendenza di classe a guerra finita – si dà per scontato vittoriosamente. Un rafforzamento ipotetico che, si badi bene, non si pone come obbiettivo nemmeno quello di abbattere il governo borghese a crisi finita o in via di risoluzione – quindi comunque in un momento in cui la sua debolezza sarà presumibilmente rientrata o svanita – ma soltanto quello di mettere una fantomatica ipoteca sulla ricostituzione di questo governo borghese.

Disgraziatamente oggi, lo ripetiamo, in Ucraina come in Russia, un soggetto autonomo di classe a cui rivolgere l’indicazione di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, posto che esista, non sembra avere nessuna rilevanza. Non soltanto l’internazionalismo, che ne è il portato, ma la stessa capacità di concepirsi come classe è ridotta ai minimi storici a livello mondiale. Tuttavia, quali che siano i rapporti di forza, una prospettiva di classe internazionalista dev’essere comunque perseguita costantemente, a prescindere dalle sue possibilità di immediata realizzazione.

L’attuale guerra imperialista in Ucraina non si è trasformata in un conflitto interimperialistico generalizzato. Non è escludibile in assoluto che lo diventi, e, se non lo farà in questa, è inevitabile che accada nel corso delle prossime guerre che sta preparando l’imperialismo mondiale. L’Italia, al di là di tutte le iperboli, non è direttamente in guerra con la Russia. Qual è il compito degli internazionalisti in Italia? Resta tutt’ora valida la consegna per il proletariato di provare a impedire l’ingresso del proprio paese in una guerra imperialista e, in caso di insuccesso, di provare a trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Come? Con azioni rivoluzionarie contro il proprio governo anche in tempo di guerra, azioni che per Lenin significano

non soltanto augurarsi la disfatta di questo governo, ma portare alla disfatta un contributo effettivo (per il «lettore perspicace»: non si tratta affatto di «far saltare dei ponti», di organizzare ammutinamenti militari votati all’insuccesso, e, in generale, di aiutare il governo a schiacciare i rivoluzionari).[26]

Non concedere tregue o sospensive nella lotta di classe contro la propria borghesia e il suo Stato in tempo di guerra, questo è il senso generale del disfattismo rivoluzionario. Affinché il proletariato possa essere un domani non troppo lontano all’altezza di questa consegna, affinché possa diventare veramente, e non nell’immaginazione di qualcuno, un fattore attivo rilevante, è necessario per gli internazionalisti avere oggi la consapevolezza che si parte da zero, che occorre rimboccarsi le maniche, in un titanico lavoro di ricostruzione dell’autocoscienza della classe operaia e dell’internazionalismo proletario. Un lavoro quotidiano, controcorrente, che non appaga la vanità individuale con risultati immediati, appariscenti, di dubbia consistenza. Un lavoro che non tollera più ritardi.

Per quanto riguarda i nostri fratelli proletari ucraini e russi, con o senza divisa, non è nostro compito suggerire loro soluzioni individuali, come la renitenza alla leva o la diserzione – la diserzione di massa sarebbe già la rivoluzione –, che però non ci permettiamo minimamente di condannare con il disprezzo che presumibilmente fa storcere il naso agli eroi della resistenza “di popolo” o “di classe”, rigorosamente a distanza di sicurezza. È però nostro compito l’intransigente denuncia del carattere imperialista di questa guerra e l’indicazione al proletariato russo e anche a quello ucraino del nemico principale nel proprio paese, senza la sconfitta del quale non è attualmente possibile nessuna lotta anti-imperialista.


NOTE

[1] B. Mussolini, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, “Avanti!”, 18 ottobre 1914.

[2] A. Bordiga, Per l’antimilitarismo attivo e operante, “Il Socialista” del 22 ottobre 1914.

[3] “… l’incondizionato riconoscimento della lotta per la libertà di autodecisione non ci impegna affatto ad appoggiare ogni richiesta di autodecisione da parte di una nazione. La socialdemocrazia, quale partito del proletariato, si pone come compito concreto e principale l’appoggio all’autodecisione non dei popoli e delle nazioni, ma del proletariato in ogni nazionalità. Noi dobbiamo tendere sempre e incondizionatamente alla più stretta unione del proletariato di tutte le nazionalità, e solo in singoli casi eccezionali possiamo avanzare e appoggiare attivamente le rivendicazioni che mirano alla creazione di un nuovo Stato classista e alla sostituzione di una più debole unità federativa alla piena unità politica dello Stato ecc.” Lenin, La questione nazionale nel nostro programma, 1903, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 77.

[4] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, ne Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 171.

[5] Ibidem, p. 172.

[6] Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione, in L’autodecisione delle nazioni, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 185.

[7] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, ne Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 177-180.

[8] Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, 1916, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 210.

[9] “…la socialdemocrazia […] non si lega affatto le mani. Essa tiene conto di tutte le possibili combinazioni, persino di tutte quelle concepibili in generale, quando sostiene nel suo programma il riconoscimento del diritto delle nazioni all’autodecisione.” Lenin, La questione nazionale nel nostro programma, 1903, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 84.

[10] Lenin, Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 111.

[11] Cfr. Ibidem, p. 115.

[12] Cfr. Ibidem, p. 111.

[13] Cfr. Ibidem, p. 120.

[14] Ibidem, p. 111.

[15] Cfr. Ibidem, p. 123.

[16] Ibidem.

[17] Cfr. Ibidem, p. 126.

[18] Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, 1916, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 216.

[19] Va da sé che incoraggiare il proletariato a farsi arruolare con parole d’ordine che di fatto si fondono con quelle nazionaliste della borghesia è esattamente asservirlo.

[20] Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, 1920, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 244.

[21] L. O’Ruairc, James Connolly, Germany and the First World War: Was Connolly a proto-Lenin? https://theirishrevolution.wordpress.com/2015/12/03/james-connolly-germany-and-the-first-world-war-was-connolly-a-proto-lenin/

[22] Ibidem.

[23] Lenin, Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 116-117.

[24] Lenin, Il programma militare della rivoluzione proletaria, OC, Editori Riuniti, Roma, 1965, volume 23, pp. 80-81.

[25] Cfr. Lenin, Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 125.

[26] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, 1915, OC, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 249.

6 pensieri riguardo “LA GUERRA IN UCRAINA E LA QUESTIONE NAZIONALE NELL’EPOCA DELLA MATURAZIONE IMPERIALISTICA

  1. Ci siamo già espressi con chiarezza nei riguardi di chi attacca tutti gli internazionalisti. Abbiamo già detto che non avremmo riservato nessuna attenzione a quanto dicono o scrivono e a questa linea ci atteniamo. Gli insulti non ci impensieriscono nè ci scandalizzano, abbiamo la pelle del rinoceronte. Continuiamo e continueremo a combattere chi introduce posizioni opportuniste e socialscioviniste nel movimento operaio con uno sforzo e un’attenzione proporzionale alla forza o alla sussistenza reale di chi se ne fa portavoce. Pur ringraziando chi ci ha scritto, consigliamo di non scadere al livello di chi non è in grado di sostenere un confronto serio e prova a trascinare l’interlocutore sul terreno che gli è più congeniale – sempre a debita distanza. C’è molto da fare. Non perdiamo tempo compagni. Grazie.

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  2. che poi mi sembra che questi di operai contro avessero minacciato di togliere a coalizioneoperaia ogni velleità teorica con i testi in mano. se questo è il risultato dei loro studi allora il topolino ha partorito una montagna di merda! il vuoto assoluto. Ripetono a sfinimento le stesse idiozie a cui hanno già ricevuto risposta. Ha ragione Luigi, per quello che dicono sull’Ucraina e per i modi da carogne da tastiera che hanno sono effettivamente un partito borghese fatto di operai. Non so a che film si riferisce Luigi ma di sicuro non era “uomini contro”. c’è più internazionalismo in quel film di guerra che nel film horror “operai contro”

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  3. Voi dovete dimostrare che la guerra è imperialista loro invece che c’è una resistenza proletaria indipendente in ucraina non devono dimostrarlo, basta un comunicato su internet di 12 persone. A combattere mica ci vanno però.
    Poi si sono parati il culo in anticipo, dicendo che se la guerra ‘diventa’ imperialista loro hanno comunque avuto ragione. Ciao ninetta. Questi buffoni se contassero qualcosa sarebbero il partito operaio borghese. Altro che partito operaio.
    Spero che quei pochi operai che li seguono si rendono conto che razza di opportunisti siano.Io lavoro da 21 anni in fabbrica e a questi di operai contro non li ho mai visti e meno male. Li ho visti solo che presentavano un film a qualche festival. Saranno pure artisti del cinema ma una cosa è certa non sono ne internazionalisti ne comunisti.
    Mi sa che il ‘mostruoso’ rostrum gli ha fatto parecchio male a questi signori, per agitarsi così. li vedo zoppicare doloranti.

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  4. Si buonasera compagni,
    La mia non é una provocazione ma una richiesta di chiarimenti, per cui se é possibile, e se avete tempo, vi pregherei di esprimervi chiaramente. La mia richiesta di chiarimenti é rivolta anche ai compagni di operai contro e riguarda questo tema innanzitutto: nel 2022, in un epoca storico-sociale dove l’imperialismo ha permeato di sé come un tumore allo stato terminale, ogni cellula del corpo sociale, che senso ha distinguere tra nazione aggredita e aggressore? Come ha scritto Lenin, l’aggredito é sempre il proletariato e l’aggressore é sempre la classe sociale che domina nell’economia .
    Se nel 2022, delle formazioni che si richiamano al marxismo non capiscono che le questioni nazionali sono l’appiglio cui i briganti imperialisti si richiamano per combattere “guerre per procura” come si da a diffondere l’inrerbazionalismo proletario?
    Scusate ma non capisco.

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  5. Se devo essere sincero non tutto quello che scrivete mi torna, soprattutto sull’Irish citizen army nel 1916, non sapevo che gli indipendentisti avessero preso una piega filotedesca. Comunque mi sembra che abbiate preso una posizione internazionalista chiara. Oggi ho letto una “risposta” al vostro articolo da parte di un gruppetto che si chiama “operai contro” che è tutto uno sbavare insulti rabbiosi contro di voi. La sostanza (poca) del loro attacco di isteria si può riassumere così: disfattismo rivoluzionario is for boys, union sacree con la borghesia in tempo di guerra is for men… poi in precedenza ho visto che vi definivano servetti dell’imperialismo. Sinceramente le lodi sperticate e prive di qualsiasi sfumatura critica alla “resistenza ucraina” le sto vedendo fare da più di un mese da tutte le potenze imperialiste contrapposte alla Russia, da tutti i giornali e le televisioni italiane, da Gramellini, da Ezio Mauro, da Paolo Mieli, da Nathalie Tocci, da Damilano e da “operai contro”. Chi è il servetto di chi?

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  6. Ho letto il rabbioso sfogo di operai contro. A quanto pare non è la prima volta che fanno queste figure indegne. Tra l’altro ci noto anche una certa dose di vigliaccheria politica perché mi sembra che posizioni simili alle vostre siano state prese anche da organizzazioni ben più importanti della vostra, con tutto il rispetto, tipo il SI. Cobas, eppure questi vermicelli attaccano solo voi, anzi solo quello che si firma rostrum. quello del personalizzare è un modo con cui chi non ha coraggio politico tenta di circoscrivere le possibili controrisposte che non è in grado di reggere. Avete la mia piena solidarietà con questi quaquaraquà. Continuate a prenderli a sberle che forse rinsaviscono.

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