Tony Cliff – L’INTERNAZIONALISMO RIVOLUZIONARIO IN PALESTINA 1937-1946

Lavoratori ebrei ed arabi in marcia con striscioni internazionalisti alla parata del Primo Maggio 1949 a Ramla

Tony Cliff, A World to Win. Life of a Revolutionary, Bookmark, London, 2000. Chapter I, Palestine. Traduzione dall’inglese di Rostrum. Il titolo è redazionale.


Il conflitto militare tra lo Stato israeliano e le milizie guidate da Hamas – responsabili delle feroci operazioni dello scorso 7 ottobre – è entrato ormai nella sua quarta settimana. Da pochi giorni i primi carri armati di Israele hanno fatto il loro ingresso in una Striscia di Gaza priva di elettricità, di carburante, di acqua, dilaniata e devastata da bombardamenti che hanno già mietuto più di 7000 vittime civili, per metà bambini.

Poche centinaia di cittadini ebrei israeliani si oppongono alle operazioni militari del proprio Governo – perlopiù in un’ottica pacifista, collaborando con altre poche centinaia di arabi israeliani nel cercare di mitigare le terribili conseguenze della guerra e delle violenze [a]– mentre la gran parte del proletariato ebraico sostiene l’unità nazionale in un momento che il Governo, le istituzioni e l’intellettualità borghesi presentano come gravido di minacce per la “sopravvivenza della patria”. Si registrano violenze e uccisioni che assumono la tragica e paradossale connotazione di veri e propri pogrom nei confronti della popolazione arabo-israeliana e della Cisgiordania, ad opera di coloni e di estremisti della destra sionista [b], mentre il governo di Tel Aviv ha di fatto sospeso molte libertà civili, armato civili estremisti e arrestato preventivamente più di 5000 tra arabi israeliani e palestinesi – in pratica sulla base di sospette simpatie per Hamas o anche soltanto per aver manifestato solidarietà con i gazawi bombardati indiscriminatamente – detenuti in condizioni in cui i maltrattamenti sembrano rasentare la tortura [c]. A Gaza, nei giorni scorsi, si sono manifestate le prime crepe sull’intonaco nazionalista della tregua sociale: migliaia di proletari gazawi hanno manifestato contro il governo di Hamas, ritenuto corresponsabile delle attuali drammatiche condizioni della popolazione della Striscia e contro l’imposizione di una nuova tassa sugli aiuti umanitari percepiti dalle fasce più povere di una popolazione già allo stremo.

In un passato quasi secolare di conflitti, mai come oggi è possibile affermare che in terra di Palestina l’internazionalismo, come movimento politico organizzato della classe operaia, è ai suoi minimi termini storici. Eppure, per quanto minoritario e con pochissima influenza sul proletariato ebraico e palestinese, il comunismo internazionalista in Palestina ha una sua storia, persino eroica.

Nonostante tutti gli elementi che possono distinguerci dal percorso politico di Tony Cliff e nonostante la distanza politica che ci separa dalle filiazioni organizzative del suo lavoro teorico e militante, abbiamo ritenuto utile tradurre e presentare alcune significative parti del primo capitolo dell’autobiografia del rivoluzionario ebreo palestinese che documentano vividamente questa storia.

Leggendo le pagine che seguono, non abbiamo potuto evitare di soffermarci sulle motivazioni che spinsero un giovane ragazzo, sionista e figlio di sionisti, ad avvicinarsi al marxismo. Motivazioni che, come avviene per ogni autentico rivoluzionario, e come ci ricorda lo stesso Cliff, attengono alla sfera dell’indignazione, della ribellione contro l’“ingiustizia” dello stato di cose esistente, della passione suscitata dagli innumerevoli e diversi modi in cui le contraddizioni del capitalismo sollecitano le corde più profonde dell’individuo e che nel marxismo trovano un indispensabile strumento teorico di lotta. Per Ygal Gluckstein – il vero nome di Cliff – il casus fu constatare l’assenza di bambini palestinesi nelle scuole che frequentava, e la loro mancanza di scarpe. Oggi, anche in chi pretende di richiamarsi al socialismo scientifico, troppo spesso le sofferenze e le privazioni dei bambini palestinesi sono invece un pretesto per allontanarsi dal marxismo.

La storia dell’internazionalismo in Palestina negli anni ’30 e ’40 è indubbiamente la storia di un fallimento. Ma esistono fallimenti e fallimenti. Alcuni possono risultare addirittura fecondi, se ne vengono vagliate materialisticamente le cause e se ci si pone nell’ottica di trarre dal lavoro rivoluzionario delle generazioni che ci hanno preceduto un esempio, una carica ideale, una determinazione, un’energia militante indispensabili per affrontare vittoriosamente le sfide che oggi deve affrontare chi sceglie la via accidentata dell’impegno rivoluzionario.

Molte sono le differenze tra le condizioni di un lavoro rivoluzionario internazionalista in Palestina oggi e più di 80 anni fa. I comunisti non possono scegliere l’epoca e molto spesso nemmeno il luogo in cui intraprendere la battaglia politica rivoluzionaria, ma devono essere in grado di cogliere sia le difficoltà che le possibilità che ogni situazione racchiude in sé.

Oggi come ieri, le condizioni salariali e sociali del proletariato palestinese sono più basse di quelle del proletariato ebraico. Se nel 1937 un lavoratore ebreo riceveva in media il 145% in più del salario del suo omologo palestinese (e in alcuni settori, come le fabbriche tessili, addirittura il 433% in più) [d], nel 2017 il reddito mensile medio di un lavoratore ebreo era di 11.191 NIS, rispetto ai 7.338 NIS di un lavoratore arabo [e]. Oggi come ieri, il proletariato ebraico, per quanto fortemente differenziato al suo interno [f], è complessivamente ancora fortemente legato ai privilegi imperialistici che la borghesia israeliana è in grado di elemosinargli, con tutto ciò che questo comporta dal punto di vista dell’adesione ideologica ad una forma di sciovinismo particolarmente aggressiva, un nazionalismo reazionario quanto ogni altro, ma privo fin dai suoi esordi di qualsiasi contenuto oggettivamente progressivo, essendo sorto in epoca imperialista per soddisfare esigenze specificamente imperialiste. Oggi come ieri, prescindendo dalla sua subordinazione ideologica al nazionalismo borghese, il proletariato palestinese resta socialmente debole, perlopiù confinato in settori non decisivi del tessuto economico regionale. Eppure, oggi il livello di industrializzazione dell’area mediorientale, per non parlare dell’estensione del capitalismo a livello globale, è certamente più elevato di quello degli anni ’40 del secolo scorso. Oggi i lavoratori palestinesi – cittadini israeliani o della Cisgiordania – sono certamente presenti in misura maggiore nel mercato del lavoro israeliano. Esistono le condizioni oggettive per un lavoro internazionalista come quello fatto da Cliff e dai suoi compagni, con maggiori possibilità di formare quantomeno un nucleo rivoluzionario anche piccolissimo che possa ambire a giocare un ruolo quando le contraddizioni imperialistiche e una crisi rivoluzionaria che coinvolga la regione allenteranno o spezzeranno il legame tra il proletariato ebraico e la borghesia israeliana e mobiliteranno il proletariato mediorientale sul fronte di classe.

Se ieri gli internazionalisti in Palestina dovevano affrontare le violenze della reazione agraria e clericale araba [g], del sionismo armato dell’Haganah e dell’Irgun, dell’amministrazione coloniale britannica, oggi devono affrontare quelle di un nazionalismo palestinese imputridito nella palude imperialista e quelle di uno Stato imperialista come quello israeliano, forte di indiscutibili capacità militari-repressive, coadiuvato da un’ideologia nazionalista pervasiva – lontana anni luce persino da quella caricatura del socialismo rappresentata dal laburismo sionista e dai movimenti dei Kibbutz e dei Moshav che Cliff identifica bene nella loro reale natura – alimentata da quasi un secolo di conflitto e da una condizione di relativo privilegio.

Eppure, se ottanta anni fa è stato possibile per Cliff e compagni conquistare militanti ebrei e arabi alla causa rivoluzionaria, malgrado fanatismi divisivi e odii settari generati e alimentati dall’imperialismo, sarebbe certamente possibile anche oggi trovare quelli che Cliff definiva rarissimi “diamanti umani” tra quegli individui che le contraddizioni capitalistiche spingono a porsi delle domande e a cercare delle risposte al di fuori dei canali ideologici dominanti; diamanti umani che la pressione gigantesca dell’imperialismo tra le rive del Giordano e il Mediterraneo non può certamente mancare di produrre. Quella dell’unità di classe è l’unica strada che le minoranze marxiste nelle metropoli dell’imperialismo possono indicare ai proletari israeliani e palestinesi mentre si battono contro il “nemico in casa propria”.

Oggi molti presunti “rivoluzionari anticapitalisti” cercano di ibridare l’internazionalismo con un appoggio “senza se e senza ma” ad uno schieramento borghese spacciato come “resistenza” nazionale e popolare, anche se, al loro appoggio “incondizionato”, allegano postille in calce sulla natura reazionaria di Hamas e soci. Dunque, delle due l’una: o l’appoggio è “condizionato” da “se e ma” tali da rendere logicamente insostenibile la sua stessa opportunità, oppure, nei fatti, si tratta di un appoggio ai soggetti che – nella totale ed incontrovertibile assenza di una qualsiasi autonomia di classe del proletariato palestinese – stanno di fatto conducendo politicamente e militarmente l’attuale “resistenza” palestinese, ovvero precisamente a quelle borghesie palestinesi ed arabe – nonché, naturalmente, ai loro padrini imperialistici – di cui si è riconosciuta verbalmente la natura reazionaria.

Arthur Koestler, che nell’arco della sua esistenza passò dall’anticomunismo stalinista a quello liberale, nel suo romanzo Ladri nella notte descrive con l’acre sarcasmo di un sostenitore della causa sionista quelle che considera manifestazioni di internazionalismo all’interno della comunità ebraica nella Palestina del mandato britannico:

«Dobbiamo convincere gli Arabi, ti piaccia o non ti piaccia. Puoi insolentirmi come ti pare, cantare tutte le canzoni che vuoi, sventolarmi le più svariate bandiere sotto il naso, ma non riuscirai ad allontanarmi dalla mia fede. Proletari di tutto il mondo, poveri e umili di tutto il mondo, unitevi. Questo per me è sacro come i Dieci Comandamenti o il Sermone della Montagna. Gli Arabi sono i poveri e gli umili, noi siamo i poveri e gli umili. Non c’è altra via. Questa è la mia fede ed io non sono disposto a vendere la mia fede per uno sciovinistico piatto di lenticchie…» […]

«Tu e le tue frasi da pacifista redentore del mondo. E se gli Arabi non vogliono farsi redimere da te? Non vogliono né i tuoi quattrini, né i tuoi ospedali, né i tuoi sindacati.»

«Ma è solo l’influenza degli effendi… dei loro latifondisti e dei loro preti» ribatté Max. «Essi temono di perdere i propri privilegi. Ma il giorno in cui il popolo comprenderà che siamo venuti come i suoi veri amici…»

«Il giorno» lo interruppe Dina «il giorno, già, intelligentone. E intanto lo aspetti fuori dall’uscio, quel giorno? E per quanto tempo, intelligentone? Per quanto tempo bisognerà aspettare, cento o mille anni, di’?»

«Nessuno parla di aspettare» ribatté Max, che aveva visibilmente paura di Dina «non ho mai detto questo. Ho detto solo che dobbiamo andare loro incontro in uno spirito di buona volontà e di comprensione.»

«Ma essi non vogliono venirti incontro, cieco che non sei altro» urlai. «Ti odiano, perché sei straniero e perché i mullah hanno detto loro di odiarti e perché sono analfabeti e vivono nel tredicesimo secolo e non hanno letto Marx. Che cosa fai tu allora? Parli di buona volontà e di comprensione, ma in realtà avanzi a gomitate, piaccia o non piaccia a loro. Ecco quello che fai, maledetto ipocrita.» [h]

Koestler aveva buon gioco nel ridicolizzare la caricatura di internazionalismo ridotto ad ingenua e idealistica petizione di principio da una certa “sinistra sionista” che cercava di conciliare un insediamento dal carattere imperialistico con la “fratellanza dei popoli”. D’altro canto, il sionismo di sinistra non era che una forma di socialnazionalismo che gli stalinisti sostennero caldamente prima che gli interessi imperialistici dell’URSS – una delle due potenze che tennero a battesimo il neonato Stato di Israele – mutassero indirizzo e si rivolgessero verso la “causa araba”. Tuttavia, i comunisti internazionalisti in Palestina – come Cliff e i suoi compagni – maturarono una rottura completa sia con l’ideologia sionista che con lo stalinismo, e su di loro il cinico sarcasmo di un Koestler non può avere alcuna presa. Come non può averne su qualsiasi internazionalista che non consideri la solidarietà di classe una sentimentale e utopistica aspirazione pacifista all’affratellamento dei “popoli”, ma una concreta, reale prospettiva di lotta, per quanto irta di enormi difficoltà, colma di rischi e avara di soddisfazioni immediate.

Oggi chi posa a Realpolitiker “di sinistra” e taccia di ingenuo utopismo gli internazionalisti si ritrova paradossalmente sulla stessa lunghezza d’onda del sionista Koestler ed è in realtà il vero fautore di brutte utopie al servizio più o meno inconsapevole della brutale e avida Realpolitik imperialistica. 

 !أيّها البروليتاريون، في جميع البلدان، إتحدوا

!פרולטרי כל הארצות, התאחדו

PROLETARIANS OF ALL COUNTRIES, UNITE!


Chanie Rosenberg e Tony Cliff negli anni ’40

[…]

La mia infanzia

Sono nato in Palestina il 20 maggio del 1917, al termine dell’occupazione ottomana in questo Paese e all’inizio della presenza britannica che sarebbe durata 31 anni. All’epoca della mia nascita, il 95% della popolazione del Paese era araba, e gli arabi hanno continuato ad essere l’immensa maggioranza per molti anni; nel 1945 costituivano il 68% della popolazione.

Sono nato in una famiglia della classe media, i miei genitori, zii e zie erano dei sionisti convinti. Mio padre e mia madre erano arrivati in Palestina dalla Polonia russa nel 1902; uno dei miei zii era già arrivato nel 1888. Le radici politiche dei miei genitori erano decisamente destrorse. Mi ricordo d’aver visto una foto di Nicola II che incontrava una delegazione della comunità ebraica di Russia guidata da Banker Gluckstein, il quale augurava allo zar di trionfare sui suoi nemici. Banker Gluckstein era il fratello maggiore di mio padre. Grazie a dio non credo nella predestinazione, non più di quanto creda che esiste un gene per le idee di destra.

Mio padre era un grande imprenditore che costruì alcuni tronconi della ferrovia dello Hegiaz. Suo socio nell’impresa era Chaim Weitzmann, il primo presidente di Israele. La mia famiglia aveva delle amicizie tra i dirigenti sionisti. Moshe Sharett (più tardi ministro degli Esteri), che visitava di frequente casa nostra, fu per me una specie di professore politico. Quando soggiornavo presso mio zio Kalvarisky a Rehavia, a volte David Ben Gurion passava per domandargli qualche cosa, oppure veniva sua moglie Paula a prendere in prestito un letto pieghevole. Il dottor Hillel Yoffe (dirigente sionista) era anche lui un mio zio. La mia famiglia era impiantata nel cuore della comunità sionista. Questo mi ha reso senza dubbio più difficoltoso rompere con il sionismo.

Il fatto che i miei genitori, come i miei zii e le mie zie, venissero dalla Russia zarista, dove l’antisemitismo era endemico, ha naturalmente rallentato il mio allontanamento dal sionismo. La mia famiglia, come tutte le famiglie originarie dell’Europa, negli anni che seguirono subì gli orrori dell’Olocausto. Ho incontrato pochi dei parenti che furono poi assassinati da Hitler, anche se di molti altri ho sentito parlare. Tra di essi, una delle mie zie che era venuta da Danzica (l’attuale Gdansk) a farci visita in Palestina a metà degli anni ’30. Poi c’era la figlia di mio zio Kalvarisky, che conoscevo molto bene – aveva la stessa età di mio fratello maggiore. Aveva sposato un ebreo olandese con il quale aveva avuto un figlio che aveva cinque anni all’epoca del nostro incontro. Tutti e tre furono inghiottiti dall’Olocausto.

La famiglia di Chanie[1] non soffrì di meno, ma, vivendo in Sudafrica, non ebbe l’occasione di incontrare quelli che furono sterminati. In effetti, probabilmente non c’è una sola famiglia ebrea in Europa o negli Stati Uniti che non abbia qualcuno dei suoi membri scomparsi nell’Olocausto. Gli ebrei orientali, sefarditi e yemeniti, generalmente non sono stati intrappolati in questo modo.

Questa situazione mi prese qualche anno nella transizione dal sionismo ortodosso, attraverso un semi-sionismo con posizioni pro-palestinesi, fino alla rottura completa con il sionismo.

I miei genitori furono molto afflitti quando il giornale locale li informò, nel 1937, che mio fratello maggiore ed io eravamo stati arrestati per aver distribuito scritti antisionisti. Mia madre era in lacrime, ma sentii mio padre rassicurarla in questi termini: «Gli passerà». Fu particolarmente doloroso per loro in quanto ero il prediletto di famiglia, la mia salute era stata cattiva per anni e su di me si riponevano grandi speranze. Non sono riuscito a reggermi in piedi che all’età di due anni e a cinque anni mi portarono a Vienna per consultare uno specialista in reumatismi. Dopo di allora la mia salute migliorò molto.

Differenti circostanze ed avvenimenti provocano l’apparire delle idee socialiste negli individui. Un particolare tipo di oppressione può condurre qualcuno a criticare la società esistente. Nessuno diventa socialista solo perché ha letto Marx – la lettura di Marx è il risultato di una ricerca di spiegazioni alle ingiustizie della società. Allo stesso modo, il socialismo utopistico di Charles Fourier e di Robert Owen – la critica dello sfruttamento e dell’oppressione di classe e l’aspirazione ad una società senza classi – ha preceduto il socialismo scientifico di Marx ed Engels. Ciascun individuo attraversa un’esperienza simile, cominciando col criticare la società per poi cercare dei modi per cambiarla.

Il pungolo specifico che fece di me un socialista fu la condizione miserabile dei bambini arabi, di cui fui testimone. Mentre io avevo sempre delle scarpe ai piedi, vedevo i bambini arabi correre permanentemente a piedi nudi. Un altro problema era l’assenza di bambini arabi nella mia classe a scuola. Non mi sembrava naturale. Dopotutto, i miei figli, nati ed educati in Inghilterra, non sono mai tornati a casa dicendo che non c’erano bambini inglesi a scuola (benché non sarei rimasto sorpreso se avessero detto che non c’erano bambini olandesi, danesi o francesi). Dopotutto, viviamo in Inghilterra. All’età di 13 o 14 anni scrissi un saggio a scuola, come tutti gli altri bambini, ma l’argomento del mio saggio era: «È così triste che non ci siano bambini arabi a scuola». Il commento della mia insegnante fu breve e chiaro. Scrisse: «comunista». Non mi era mai venuta fino a quel momento l’idea di considerarmi come un comunista. Per tutto il resto della mia vita ho provato immensa gratitudine per questa persona. Vorrei molto poterla stringere in un abbraccio.

C’è un altro fattore che attirò la mia attenzione sul problema dell’esclusione dei bambini arabi dalla scuola. C’era nel Paese una piccola scuola in cui i bambini ebrei e quelli arabi erano mescolati. Questa istituzione era stata fondata e finanziata da uno dei miei zii, Chaim Malgarit-Kalvarisky. Era molto agiato, essendo il dirigente dell’organizzazione dei Rothschild in Palestina. Aveva anche fondato un minuscolo gruppo di ebrei ed arabi liberali chiamato Brit Shalom (Lega della Pace). Questo zio era vittima dei sarcasmi di mio padre e di mia madre che lo consideravano un pazzo. Era talmente ossessionato che raramente parlava d’altro che della pace con gli arabi. Chanie riteneva che ci fosse una grande rassomiglianza tra lui e me – eravamo entrambi un po’ disturbati. Mi disse: «Dev’esserci un legame di sangue che lo spieghi». Gli risposi che Kalvarisky era un parente acquisito: aveva sposato la sorella di mio padre. I suoi atti hanno probabilmente concentrato fortemente la mia attenzione sulla questione dell’esclusione degli arabi dalla mia scuola. Mi sono sempre identificato con i paria.

L’ostracismo verso gli arabi non si limitava all’educazione. Essi erano esclusi anche dalle abitazioni di proprietà degli ebrei. Il risultato di questa segregazione fu che durante i 29 anni in cui ho vissuto in Palestina non sono mai stato sotto lo stesso tetto con degli arabi. Infatti, la prima volta che ho vissuto nella stessa casa di un arabo palestinese fu nel 1947, quando alloggiavo in una piccola pensione a Dublino.

Un altro fattore che mi ha condotto ad identificarmi con i palestinesi era il nome che i miei genitori mi avevano dato: Ygael (Gluckstein). Era il nome di un eroe sionista alla John Wayne che aveva massacrato un certo numero di arabi. All’età di 13 anni, cambiai il mio nome in Ygal. Siccome in ebraico non ci sono vocali ma solo consonanti, i due nomi si scrivono esattamente allo stesso modo (יגל) era dunque cosa facile da farsi. L’origine del nome Ygal è la seguente: Mosè inviò 12 spie prese dalle 12 tribù d’Israele nella terra di Canaan per raccogliere informazioni. Due di essi dissero che avrebbero voluto stabilircisi; gli altri dieci erano di avviso contrario. Il primo di questi ultimi che non volle vivere nella terra di Canaan si chiamava Ygal.

L’economia chiusa sionista

I sionisti che erano emigrati in Palestina alla fine del XIX secolo volevano che tutta la popolazione fosse ebrea. In Sudafrica, per contro, i capitalisti e il loro entourage erano bianchi, mentre i lavoratori erano neri. In Palestina, con il bassissimo livello di vita degli arabi rispetto agli europei, e con una disoccupazione, visibile e nascosta, molto estesa, il modo per escludere gli arabi era quello di sbarrargli il mercato del lavoro ebraico. C’era un certo numero di metodi per farlo. Innanzitutto, il Fondo Nazionale Ebraico, proprietario di gran parte delle terre in mano agli ebrei, compresa una grossa porzione di Tel Aviv, aveva un regolamento che insisteva sul fatto che solo gli ebrei potevano essere impiegati su queste terre.

Mi ricordo che nel 1945 un caffè di Tel Aviv fu assalito e quasi distrutto perché correva voce che un arabo vi fosse impiegato come lavapiatti. Ho anche il ricordo, quando mi trovavo all’Università Ebraica di Gerusalemme, tra il 1936 e il 1939, di ripetute manifestazioni contro il vice-rettore dell’università, il dottor Magnes. Era un ebreo americano ricco e liberale, il cui crimine era quello di essere locatario di un arabo. Non c’è probabilmente nessuno studente, ad esempio della London School of Economics, che sappia o a cui importi sapere se il vice-rettore è proprietario del suo alloggio o se lo prende in affitto da un cattolico, un protestante o un ebreo.

Nel marzo 1932, David Ben Gurion, dirigente del Mapai, il partito laburista di Eretz Israel, il futuro Primo ministro dello Stato Ebraico, fece chiaramente sapere che era fortemente contrario all’impiego di lavoratori arabi da parte di ebrei. Egli proclamò:

Nessuno deve pensare che siamo aperti all’esistenza di un impiego non-ebraico nei villaggi. Noi non cederemo, ripeto non cederemo nessun posto di lavoro nel Paese. Ve lo dico conscio delle responsabilità, è meno vergognoso aprire un bordello che estromettere gli ebrei dal loro lavoro sulla terra di Palestina.

Non potete immaginare cosa significassero laggiù quelle semplici parole. I bordelli di Tel Aviv erano tra i migliori, ma non c’era un solo lavoratore arabo nella città.

In questo campo non esistevano reali differenze tra i sionisti di destra o di sinistra. I sionisti di sinistra del Hashomer Hatzair non erano da meno degli altri, e non c’è alcun dubbio che Bentov, uno dei loro dirigenti, avesse ragione quando diceva:

Il Mapai non ha il monopolio della rivendicazione di un lavoro ebraico. Noi siamo per la massima estensione del lavoro ebraico e per il suo controllo nell’economia ebraica[2]

Infatti, in tutti i casi di picchettaggio contro il lavoro arabo non c’è un solo esempio in cui Hashomer Hatzair non vi abbia partecipato, o almeno apportato il suo sostegno.

La federazione sindacale sionista, l’Histadrut (Federazione Generale del Lavoro Ebraica), imponeva a tutti i suoi membri una doppia quota, una per la difesa del lavoro ebraico e l’altra per la difesa dei prodotti ebraici. L’Histadrut organizzava dei picchetti contro i fruttivendoli che impiegavano degli arabi, costringendo i proprietari a licenziarli.

Mi ricordo dell’incidente che segue. All’epoca, Chanie era appena arrivata nel Paese e mi aveva raggiunto in un alloggio vicino al mercato ebraico di Tel Aviv. Un giorno vide un giovane ebreo che camminava fra le donne che vendevano legumi e uova, e di tanto in tanto schiacciava le uova con le scarpe o versava della paraffina sui legumi. Mi domandò: «Ma che fa quello?» Gli spiegai che controllava se le donne erano ebree o arabe. Nel primo caso, andava tutto bene; nel secondo, utilizzava la violenza. Chanie reagì: «È esattamente come in Sudafrica!», da dove era appena arrivata. «È peggio» le risposi, «almeno in Sudafrica i neri possono trovare un impiego».

Chanie arrivò in Palestina nel giugno 1945, e cominciammo a vivere insieme nell’ottobre dello stesso anno. Eravamo disperatamente poveri e la nostra sola entrata era quello che guadagnava Chanie come insegnante di inglese part-time. Noi prendemmo in affitto una camera in una grande e sordida banlieue ai margini di Tel Aviv, costruita su dune di sabbia, senza strade né servizi – cosa che non è stata mai menzionata nella propaganda sionista. Il proprietario era uno yemenita di una comunità chiamata “gli ebrei neri”. Sua moglie, di 25 anni, gravata già di un certo numero di figli, aveva perso tutti i denti ed era magra come un filo. Alla nostra domanda di una camera da affittare il proprietario ci indicò una duna vuota. «Dov’è la stanza?» gli domandammo. «Sarà lì domani», rispose, e con nostro stupore la trovammo lì – una piccola stanza di mattoni con delle piastrelle posate direttamente sulla sabbia. Quando pioveva, l’acqua colava sotto il pavimento, creando un’umidità che ammuffiva le nostre scarpe, i nostri libri e tutto il resto. Per di più, i nostri libri venivano divorati dai topi. La nostra cucina era una casseruola, la nostra illuminazione una lampada di Aladino. I bagni erano dei bagni in comune muniti di scarico. Il nostro letto era una struttura metallica di 80 cm di larghezza, offerta dalle autorità sioniste a tutti gli immigranti, con un avvallamento in mezzo. Era regolarmente infestato dalle pulci, ed ogni settimana organizzavamo una cerimonia di cremazione delle pulci nella nostra casseruola per “celebrare il shabbath”.

Uno dei nostri visitatori un giorno s’appoggiò sulla finestra e tutta la struttura crollò. Questo stesso amico lavorava in un ristorante e a volte ci portava delle salsicce che cominciavano ad andare a male e che non potevano essere servite ai clienti. Per noi era un festino che aggiungevamo alle nostre solite patate, spaghetti e arance. Una volta al mese ci invitavamo al ristorante dove gustavamo carne di cammello, il piatto meno caro del menu. È in questa stanza che ho scritto il mio libro di 400 pagine sul Medio Oriente, che Chanie tradusse in inglese e che dattilografò su una vecchia macchina da scrivere quasi rotta. Non lo fece per meno di otto volte prima che l’opera prendesse la sua forma definitiva.

I genitori di Chanie decisero di emigrare dal Sudafrica in Israele e noi non potevamo lasciargli vedere in che condizioni vivevamo. Riuscimmo, a caro prezzo per i nostri limitati mezzi, a trovare una camera costituita per metà dalla caldaia di un palazzo di appartamenti. Era larga due metri, abbastanza per metterci un letto e un armadio che ci avevano regalato. Ai piedi del letto, un piccolo tavolo con un lato pieghevole per consentire alla porta di aprirsi e chiudersi. Rispetto al precedente, consideravamo questo alloggio lussuoso. Malgrado tutto, il padre di Chanie per poco non svenne quando lo vide, esclamando: «Ma il mio garage è tre volte più grande!».

Quando alla vigilia della nascita dello Stato d’Israele furono operati degli arresti di massa da parte dei britannici, abbiamo dovuto far sparire in tutta fretta i nostri documenti illegali nella tazza del bagno, che rifiutò di piegarsi ai nostri desideri. Fortunatamente, i soldati inglesi procedettero all’arresto senza frugare nel bagno, e noi fummo rilasciati dopo molte ore, durante le quali Chanie parlò in inglese con i soldati per blandirli, cosa che riuscì a convincerli ad abbandonare le indagini sul mio status di persona ricercata.

Tutti i compagni vivevano nella stessa miseria, e, malgrado ciò, facevamo delle sottoscrizioni per sostenere i nostri sul piano internazionale – per esempio il nostro gruppo italiano che si presentò alle elezioni. La quota dei membri del gruppo era pari a una giornata di lavoro per settimana. Tutto questo, e le collette speciali che facevamo, significava che alcuni membri saltavano i pasti per poter pagare.

Mentre il sionismo scavava una profonda trincea che separava gli ebrei dagli arabi, l’imperialismo collaborò nell’impresa. Quando le autorità britanniche in Palestina impiegavano sia degli arabi che degli ebrei per effettuare gli stessi compiti, agli arabi pagavano come salario un terzo di quello che davano agli ebrei. La politica del “divide et impera” era dominante, anche nelle prigioni. Quando fui arrestato nel settembre 1939, fui messo in una prigione di soli ebrei. Le condizioni non erano molto differenti da quelle delle prigioni arabe. Dormivamo per terra – quarantatré persone strette come sardine – in modo tale che la notte era impossibile rigirarsi. Alle sei di mattina, fummo rinchiusi per dodici ore. Un secchio d’acqua serviva per le abluzioni di tutti. L’odore era tremendo. Dal mattino, la nostra prima occupazione consisteva nello spidocchiarci, noi e i nostri abiti. Il nutrimento arrivava sotto forma di un grande calderone, nel quale ciascun prigioniero doveva pescare con le mani alla ricerca di un pezzo di carne, dopo di che la brodaglia veniva versata nelle ciotole individuali. Ma le condizioni migliorarono radicalmente quando fui trasferito in un’altra prigione. Anche questa era di soli ebrei, ma era visibile ai prigionieri arabi che avevano così il piacere di poter comparare il proprio trattamento con il nostro. Improvvisamente, ci diedero dei letti, e una sala docce separata dalla cella in cui dormivamo.

La politica dei laburisti sionisti verso gli arabi era stranamente in contraddizione con le loro reiterate dichiarazioni di simpatia nei loro confronti, nei primi anni della colonizzazione sionista. Così, nel 1915, Ben Gurion poteva scrivere:

In nessun caso i diritti di questi abitanti (gli arabi) devono essere messi in discussione. Solo dei “sognatori del ghetto” come Zangwill possono immaginare che la Palestina possa essere affidata agli ebrei con il diritto di cacciare i non-ebrei dal Paese. Nessuno Stato consentirà una cosa simile. Anche se sembrasse che questo diritto ci sia accordato… gli ebrei non hanno né giustificazioni né possibilità di esercitarlo. Non è proposito del sionismo cacciare dalla Palestina i suoi attuali abitanti; se avesse questo scopo, sarebbe solo una pericolosa utopia, una Fata Morgana reazionaria.[3]

Nel 1920 Ben Gurion scrisse a proposito del fellah, il contadino arabo, e della sua terra, quanto segue:

In nessun caso la terra che appartiene al fellah e che egli coltiva deve essere toccata. Coloro che vivono del lavoro delle proprie mani non devono essere strappati dal proprio suolo, neanche con indennizzi finanziari.[4]

La sorte del lavoratore ebreo è legata a quella del suo compagno arabo. Essi si innalzeranno o cadranno insieme.

affermava nel 1924[5]. Più tardi, nel 1926, disse:

La popolazione araba fa parte in maniera organica e indissolubile della Palestina. Essa ha qui le sue radici, qui lavora e qui rimarrà. Benché nell’epoca attuale non sia impossibile espellere grandi masse di persone da un Paese per mezzo della forza fisica, solo dei pazzi o dei politici idioti possono accusare il popolo ebraico di nutrire un simile desiderio[6].

Il dottor Weitzmann, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale e futuro presidente d’Israele, dichiarò, in un discorso tenuto a Londra l’11 dicembre 1929:

Fino ad oggi non c’è stato alcun caso – e spero non ce ne siano in futuro – in cui un arabo sia stato espulso dalla sua terra, sia direttamente che indirettamente.

Se simili dichiarazioni hanno un qualche valore, si potrebbe citare Jabotinsky, il rappresentante dell’ala sionista più estrema e più avida, quella dei Revisionisti (oggi Likud), che un tempo hanno dichiarato come facenti parte dei loro princìpi fondamentali:

  • L’eguaglianza di tutti i cittadini.
  • L’eguaglianza dei diritti deve essere mantenuta per tutti i cittadini senza considerazioni di razza, religione, lingua o classe, in tutti i settori della vita pubblica del Paese.
  • In ogni governo in cui un ebreo sarà Primo ministro, un arabo sarà suo vice e viceversa…[7]

Malgrado tutto, queste non erano altro che ninne nanne che i sionisti cantavano alla popolazione araba per addormentarla. La logica dello sviluppo del sionismo condusse col tempo a dei cambiamenti nell’atteggiamento verso gli arabi. Più il sionismo avanzava, più alimentava la collera e la resistenza degli arabi. In compenso, questa resistenza instillò fra gli ebrei una paura sempre più profonda degli arabi.

I lavoratori ebrei prigionieri del sionismo

La classe operaia di Palestina era profondamente divisa tra arabi ed ebrei. Essi parlavano lingue diverse – solo una piccola minoranza di lavoratori ebrei capiva l’arabo, e una minoranza ancora più ridotta degli arabi capiva l’ebraico. In qualche azienda c’erano contemporaneamente ebrei ed arabi. Così, ad esempio, fra i circa 5000 salariati delle ferrovie all’inizio degli anni ’40, i quattro quinti erano arabi ed un quinto ebrei. La raffineria di petrolio di Acra impiegava allo stesso tempo arabi ed ebrei, anche lì in maggioranza arabi. Anche i livelli subalterni della funzione pubblica impiegavano salariati delle due comunità. Ma queste erano eccezioni: il 90% dei lavoratori era occupato in impieghi in cui regnava la segregazione.

Un evento, in occasione del quale potei vedere uniti lavoratori ebrei e arabi, mi riscaldò il cuore. Fu all’inizio degli anni ’40, viaggiavo in autobus da Acra ad Haifa. Il bus era pieno di salariati, arabi ed ebrei, della raffineria di Acra. Fra di loro c’erano due membri del nostro gruppo. Questi ultimi cominciarono a cantare degli inni socialisti in arabo. Uno degli arabi gridò: «Cantiamo in ebraico per i nostri fratelli ebrei!» e così fecero. Fu meraviglioso, ma ahimè, è stato come una stella cadente, un breve bagliore in una notte molto scura.

Ideologicamente, il “socialismo sionista” ingannava i propri partigiani, impedendogli di rompere chiaramente con lo sciovinismo e con l’imperialismo, anche se molto spesso alcuni li condannavano entrambi.

Quella che segue è un’illustrazione della complessità del socialismo sionista e delle contraddizioni che lo laceravano. Quando Chanie arrivò in Palestina dal Sudafrica faceva parte dell’ala più a sinistra del movimento socialista sionista – Hashomer Hatzair. Si consideravano marxisti, ed alcuni persino trotskisti. Lei entrò in un kibbutz (fattoria collettiva) che apparteneva al movimento Hashomer Hatzair, nel quale non c’era alcun possesso privato di ricchezza e nessuna proprietà privata. La produzione e il consumo erano collettivi. L’educazione dei bambini era assicurata collettivamente, non c’erano cucine individuali, etc. I membri del kibbutz vedevano in questo l’embrione della futura società socialista. Ed è qui che interviene un paradosso. Poco prima dell’arrivo di Chanie, i membri del kibbutz furono sottoposti ad un test terribile. C’erano quattro kibbutzim e quattro villaggi arabi in quella vallata, attorno ad una collina pietrosa. Tutti i kibbutzim decisero di espellere gli arabi dai loro villaggi situati sulle terre che il Fondo Nazionale Ebraico aveva comprato da proprietari terrieri arabi. Formarono così una lunga falange ai piedi della collina, salendo s’armarono di pietre e le gettarono sugli arabi dell’altro versante. Gli agricoltori arabi avevano coltivato quella terra per generazioni, e non ne avevano ricavato nulla dai loro proprietari. Fuggirono, terrorizzati, e i sionisti si impadronirono di tutta la collina. Fu allora che Chanie decise d’informarsi sull’attività politica dei “trotskisti” in seno ad Hashomer Hatzair, e intraprese un viaggio nel Paese per incontrarli. Li scoprì – erano per la maggior parte, bizzarramente, giovani vaccari – completamente immersi nella vita e nell’economia del loro particolare kibbutz, senza nessun rapporto con i lavoratori e i contadini arabi, e inconsapevoli dei crimini politici dei sionisti.

Un piccolo aneddoto per mostrare fino a che punto all’epoca fossi entusiasta ma ingenuo sul piano politico. Poco dopo lo sgombero degli agricoltori arabi, fui invitato a venire a parlare in quel kibbutz. Il nostro gruppo fu contattato e ci chiesero un oratore. Arrivai nel kibbutz il venerdì pomeriggio, alla fine della giornata di lavoro. Una dozzina di compagni, tutti originari del Sudafrica, vennero per sentirmi parlare. Cominciai a parlare alle due del pomeriggio e continuai fino all’una di mattina. Dopo aver chiesto se c’erano domande (ma senza dare il tempo di parlare) continuai a parlare fino alle quattro di mattina. Qualche giorno dopo, Chanie mi disse: «Capisco l’ebraico meglio degli altri compagni, ma comunque non sono riuscita a seguirti. Parlavi così velocemente che sono riuscita appena ad afferrare parole come “capitalismo”, “socialismo”, “sionismo”, “internazionalismo” e “rivoluzione”. Gli altri non hanno capito nulla». Delusa dalle prospettive di progresso in senso rivoluzionario nel movimento dei kibbutzim, Chanie lasciò il kibbutz, si stabilì a Tel Aviv e cominciammo a vivere insieme. È possibile che uno dei motivi che aveva per farlo fosse il desiderio di capire quello che avevo detto in quell’occasione! Adesso sono 55 anni che viviamo insieme e lei probabilmente non ne sa molto di più. Quanto a me, non me ne ricordo di certo.

I socialisti sionisti erano politicamente ingannati, pensavano che l’avvenire appartenesse al socialismo, che si potesse riconoscere nei kibbutzim l’embrione della futura società socialista (piuttosto che un collettivo di coloni). Ma, nello stesso tempo, la resistenza degli arabi alla colonizzazione sionista doveva essere spezzata; quindi, essi collaboravano con i sionisti pieni di soldi e con le istituzioni altrettanto bene che con la polizia e l’esercito inglesi. I socialisti sionisti tenevano il Manifesto dei Comunisti in una mano e il fucile del colonizzatore nell’altra.

Naturalmente, esisteva un conflitto di classe in seno alla comunità ebraica in Palestina. I lavoratori e i padroni si scontravano sui salari e sulle condizioni di lavoro. Ma l’espansione coloniale sionista soffocava la lotta di classe e gli impediva di prendere la forma politica di un’opposizione al sionismo e all’imperialismo contemporaneamente a quella della solidarietà con gli arabi sfruttati e oppressi.

Le contraddizioni nella coscienza dei lavoratori ebrei in Palestina trovano origine nel fatto che, mentre erano in conflitto con gli arabi, essi venivano da una comunità portatrice di una coscienza socialista. In Polonia, dove all’epoca risiedeva la più importante comunità ebraica in Europa, a Varsavia, Lodz, Cracovia, Lvov, Vilna e in altre grandi città, nel dicembre 1938 e nel gennaio 1939 si tennero le elezioni municipali. Il Bund, che era l’organizzazione dei lavoratori ebrei socialisti ed antisionisti, ebbe il 70% dei voti nei distretti ebraici. A Varsavia il Bund raccolse 17 dei 20 seggi, quando i sionisti non ne ebbero che uno soltanto.

La dipendenza dall’imperialismo

Consapevoli che avrebbero dovuto confrontarsi con la resistenza dei palestinesi, i sionisti hanno sempre saputo di aver bisogno dell’aiuto della potenza imperialista all’epoca più influente in Palestina.

Il 19 ottobre 1898, Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, si recò a Costantinopoli per incontrare il Kaiser Guglielmo. All’epoca, la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano, alleato della Germania. Herzl dichiarò al Kaiser che l’insediamento dei sionisti in Israele avrebbe accresciuto l’influenza tedesca, essendo allora il centro del sionismo in Austria, altro alleato dell’Impero tedesco. Herzl sventolò anche un’altra carota: «Gli spiegai che noi distoglievamo gli ebrei dai partiti rivoluzionari».

Verso la fine della Prima guerra mondiale, quando era chiaro che la Gran Bretagna si sarebbe impadronita della Palestina, il dirigente sionista di quel periodo, Chaim Weitzmann, contattò il segretario del Foreign Office, Arthur Balfour, ottenendo da lui, il 2 novembre 1917, una dichiarazione che prometteva agli ebrei un focolare nazionale in Palestina. Sir Ronald Storrs, il primo governatore militare britannico di Gerusalemme, spiegò che

l’impresa sionista beneficia tanto colui che dà quanto colui che prende, creando a beneficio dell’Inghilterra un piccolo Ulster ebraico lealista in un mare di potenziale ostilità araba.

I sionisti dovevano essere gli “Orangisti” di Palestina.

Con la Seconda Guerra mondiale, divenne evidente che la potenza dominante in Medio Oriente non era più l’Inghilterra, e che gli Stati Uniti ne avevano preso il posto. Ben Gurion, il dirigente sionista del periodo, si precipitò a Washington per concludere degli accordi con gli americani. Israele è oggi il miglior satellite degli USA. Non per nulla Israele riceve più aiuti economici dagli Stati Uniti di ogni altro Paese, pur essendo così piccolo. E riceve anche più aiuti militari di qualsiasi altro Paese al mondo.

Il sionismo non è in vendita; è a noleggio.

Dal socialismo sionista al trotskismo

All’età di 14 anni, mi ero unito alla federazione giovanile del partito socialdemocratico sionista, il Mapai. Questo partito era un groviglio di contraddizioni. Dominava il sindacato così come tutti i consigli municipali, i suoi membri si consideravano sinceramente socialisti. L’ala sinistra del movimento socialista sionista pubblicava in ebraico un gran numero di opere di Marx ed Engels. Aveva anche pubblicato una traduzione di due libri di Trotsky, la Storia della Rivoluzione Russa e La mia vita.

All’età di 16 anni mi unii all’organizzazione sionista di sinistra chiamata Mifleget Poale Zion Vehachougim Hamarksistim b’Eretz Israel – il Partito dei Lavoratori di Sion e i Circoli Marxisti della Terra d’Israele (MPZVCMEI).

Ma le tensioni e le contraddizioni della politica dell’organizzazione misero a dura prova le mie idee e le mie convinzioni. Non citerò che un solo evento significativo.

Nel febbraio 1934, una magnifica battaglia si svolse a Vienna, dove i lavoratori si sollevarono contro il fascismo. Benché fossero stati vinti, Vienna diventò una fiamma ispiratrice per tutto il movimento operaio internazionale. L’anno precedente, nel 1933, il movimento dei lavoratori tedeschi – il più forte e meglio organizzato del mondo – aveva capitolato davanti ai nazisti praticamente senza combattere. Nel mondo intero, mi ricordo, dei socialisti, dei comunisti e degli antifascisti ripetevano lo slogan «Piuttosto come Vienna che come Berlino!». Nello stesso periodo, fu organizzato dal Mapai un meeting ad Haifa, al quale assistetti. Il segretario della centrale sindacale di Haifa prese la parola. Egli cominciò il suo discorso con queste parole: «Non c’è stato un simile eroismo che una sola volta nella storia – durante la Comune di Parigi». Che magnifica dichiarazione di sinistra! Egli concluse dicendo: «Quello di cui abbiamo bisogno, è l’unità dei lavoratori». Quando finì, intervenni e aggiunsi «internazionale». In ebraico l’aggettivo viene dopo il nome, così che il mio intervento significava «l’unità internazionale dei lavoratori». Se avessi gridato “Viva la classe operaia britannica” o “Viva la classe operaia cinese”, sono sicuro che non avrei sconvolto di più l’oratore. Ma, nel contesto della Palestina, le mie parole significavano nei fatti l’unità con gli arabi. Tre membri del servizio d’ordine si avvicinarono a me, due di loro mi tirarono per le braccia mentre il terzo mi afferrò l’anulare e me lo torse fino a spezzarmelo. Vada per la Comune di Parigi, ma mai con i lavoratori arabi.

Sempre più delusi dal MPZVCMEI, alcuni fra noi cominciarono a proclamarsi trotskisti, operando come frazione in seno a questa organizzazione. I brillanti scritti di Trotsky sulla Germania di fronte al nazismo non ci arrivarono che dopo la vittoria di Hitler. Contribuirono in modo cruciale a fare di noi dei trotskisti.

Nel 1938 fummo espulsi dal MPZVCMEI. Le circostanze di questa espulsione sono interessanti in quanto mettono in luce la natura contraddittoria delle organizzazioni di sinistra centriste. Il MPZVCMEI era affiliato al Bureau Internazionale dell’Unità Socialista Rivoluzionaria, un’organizzazione centrista. Il suo segretariato era a Londra, conosciuto con il nome di Bureau di Londra. Ne facevano parte l’Indipendent Labour Party britannico, il POUM spagnolo, la SAP tedesca e altre organizzazioni.

Alla fine del 1938, due parlamentari dell’Indipendent Labour Party, Campbell Stephen e John McGovern, vennero in Palestina. Il nostro partito organizzò per loro due riunioni pubbliche. Durante la prima, a Gerusalemme, c’era una folla, senza dubbio circa 1000 persone. L’attrazione erano i deputati e non il nostro partito, che non contava che qualche decina di membri nella città. Alla fine della riunione, il pubblico si alzò per cantare l’inno sionista, Hatikvah. Il nostro partito si era sempre rifiutato di alzarsi per questo canto ma quella volta i dirigenti dell’organizzazione si alzarono, probabilmente per dissimulare il fatto che la maggioranza del pubblico era alla nostra destra. In tribuna, tutti si alzarono tranne me. Io rappresentavo i giovani dell’organizzazione. Fui veramente sorpreso che nessuno dei due deputati dell’ILP mi domandasse perché restavo seduto. Al meeting seguente con i parlamentari ILP, ad Haifa, un giovane membro della nostra organizzazione si alzò e lesse una breve dichiarazione in inglese contro l’imperialismo e il sionismo. Pensammo che ormai la distinzione fosse chiara. Ahimè, i dirigenti del partito erano molto maligni, e dopo la lettura della dichiarazione si alzarono ed applaudirono. I visitatori inglesi pensarono probabilmente che il giovane si fosse male espresso in inglese. Qualche giorno dopo la loro partenza dalla Palestina, il nostro gruppo fu espulso per questa dichiarazione.

Incidentalmente, otto anni più tardi, la mia strada incrociò di nuovo quella di Campbell Stephen. Ero in Inghilterra, minacciato di espulsione dal territorio. Chanie ed io andammo alla Camera dei Comuni per domandargli aiuto. Si ricordò senza dubbio di me. Nondimeno, dall’inizio della discussione mi domandò: «Qual è secondo Lei la soluzione della situazione in Palestina?». Cominciai a parlare della necessità di opporsi all’imperialismo ed al sionismo. Ma lui doveva essere su un altro pianeta, poiché mi rispose: «Ritornate verso il Signore, voi ebrei, martiri dell’umanità». Pensai di aver capito male, la mia conoscenza della lingua inglese era lontana dall’essere perfetta. Domandai a Chanie in ebraico: «Che va dicendo?». Lei tradusse – che sciocchezza centrista! Malgrado tutto acconsentì ad aiutarmi.

Per un breve periodo – due anni – passai dalla sinistra sionista al Partito comunista, ovvero stalinista, per poi finalmente diventare trotskista. Non feci parte del Partito Comunista di Palestina perché era clandestino e non trovai nessun modo per raggiungerlo.

Gli eventi di Germania furono cruciali nella mia trasformazione trotskista. […] Divenni dunque trotskista. Non ho mai avuto occasione di rimpiangerlo. Ma sarebbe un errore sottostimare la sofferenza causata dalla rottura con lo stalinismo. Questo esercitava una considerevole attrazione su coloro che temevano Hitler. Lo stalinismo non era solo un movimento politico, era anche un movimento religioso fanatico. Quello che Marx disse a proposito della religione. «Il cuore di un mondo senza cuore, il sospiro degli oppressi, l’oppio del popolo» – in quel periodo si attagliava allo stalinismo. Più la classe operaia conosceva disfatte, più grande era l’attaccamento allo stalinismo come ad una forza che poteva opporsi a Hitler nell’avvenire. Ahimè, fu la politica di Stalin che facilitò la vittoria di Hitler: dal “socialfascismo” alla massiccia virata a destra costituita dalla politica dei Fronti Popolari in Francia e in Spagna fino al patto Hitler-Stalin. Rompere con questa potenza per diventare trotskista era un’esperienza molto dolorosa. Per illustrare l’aspetto religioso dello stalinismo, menzionerò un piccolo evento: quando un membro del PC palestinese ricevette un paio di stivali dalla Russia, li abbracciò; per lui erano delle icone.

Il breve periodo della mia giovinezza – qualche mese – in cui appartenni allo stalinismo mi aiutò a comprendere la forza della presa di Stalin sui suoi aderenti. Un razionalista non può capire la forza della religione, con i suoi assurdi argomenti. Non può cogliere l’attrattiva della religione per degli esseri deboli e vulnerabili messi di fronte ad una natura e ad una società ostili. Solo il potere, la lotta, possono emancipare l’umanità dalla religione.

Essendo stato trotskista per tutto il resto della mia vita, posso affermare in tutta onestà che non ho mai deviato dal mio sostegno totale al trotskismo e dal mio orrore per lo stalinismo, che tante catastrofi ha causato all’umanità.

I lavoratori arabi intrappolati nel campo della reazione feudale

Ho già fatto riferimento al sionismo come ad una trappola per i lavoratori ebrei in Palestina. Una classe operaia araba forte e dinamica avrebbe potuto tirare fuori la classe operaia ebraica dall’impasse nel quale la costringeva il sionismo. Sfortunatamente, fu l’espansione sionista stessa (che minacciava gli arabi di quella che verrà in seguito chiamata “pulizia etnica”) ad impedire ai lavoratori arabi di staccarsi dai dirigenti più reazionari.

La colonizzazione spaventava le masse arabe, questo diede la priorità alla loro opposizione al sionismo, predisponendoli ad unirsi ai proprietari fondiari feudali che predicavano il compromesso con l’imperialismo per tentare di arrestare l’espansione sionista. Naturalmente, gli arabi non avevano neanche una pallida idea dell’impatto che questa espansione avrebbe avuto in seguito. La pulizia etnica degli arabi conseguente alla fondazione dello Stato d’Israele era ancora di là da venire.

“La catastrofe” è il termine utilizzato dai palestinesi per indicare la fondazione dello Stato d’Israele nel 1948. Dopo, con le tre guerre che hanno contrapposto Israele agli arabi (nel 1948, 1967 e 1973), la pulizia etnica dei palestinesi prese una dimensione di massa. Oggi ci sono nel mondo 3.400.000 rifugiati palestinesi, molto più del numero di quelli che sono rimasti nella regione dove vivevano un tempo. Le cifre della proprietà fondiaria attestano la loro eliminazione: nel 1917 gli ebrei possedevano il 2,5% delle terre del paese. Nel 1948, la cifra è passata a 5,7%, e attualmente è vicina al 95% nei confini antecedenti al 1967. Oggi in Israele, in cui i palestinesi formano circa il 20% della popolazione (un milione su cinque), secondo uno specialista palestinese

nelle 22 università non c’è un solo impiegato arabo, neanche un segretario. La compagnia elettrica impiega 25.000 persone, fra le quali solo sei sono arabi. Siamo il 20% della popolazione e abbiamo il 2,5% della terra[8].

La massa del proletariato palestinese si sentì costretta a resistere alla forte espansione dei coloni sionisti facendo appello all’imperialismo britannico. Essa fu dunque preda dell’influenza reazionaria feudale.

Alla testa di questa corrente reazionaria c’era il Gran Muftì di Gerusalemme, Ḥājjī Amin al-Husseini, capo religioso dei mussulmani e patriarca di una ricca famiglia di proprietari terrieri. Egli fu nominato a questa carica con l’assenso delle autorità britanniche. Nel 1936-39 ci fu un sollevamento degli arabi contro l’espansione delle colonie ebraiche, che fu brutalmente represso dall’esercito inglese e dai volontari sionisti. All’epoca di queste sommosse, Al Liwa, il giornale di Ḥājjī Amin al-Husseini, fece leggere in un editoriale:

È l’influenza ebraica che si è infiltrata nel cuore della politica britannica in Palestina, che arreca torto alle autorità e gli impedisce di compiere i doveri imposti dai sentimenti umani[9].

La proclamazione n. 3 della direzione della rivolta araba, in data 4 settembre 1936, dice:

È increscioso che la Gran Bretagna subisca queste perdite in una parte santa dei Paesi arabi, loro alleati di ieri e di oggi, perseguendo lo scopo di servire il sionismo e di costruirgli un focolare nazionale nella Palestina araba. I Paesi arabi non combattono gli interessi britannici, allo stesso modo che gli arabi non si battono contro la Gran Bretagna, e non desiderano nuocere ai suoi interessi ma solamente lottare contro la colonizzazione ebraica e la politica sionista. Fatti salvi questi due punti, gli arabi vivrebbero amichevolmente e pacificamente con gli inglesi[10].

Il 13 dicembre 1931, Al-Jami’a Al-Arabiya, il giornale del Consiglio Mussulmano degli Husseini, pubblicò un estratto del tristemente celebre Protocollo dei savi di Sion che “provava” la collusione degli ebrei con il comunismo. Documenti simili apparirono spesso sullo stesso giornale e in generale sulla stampa araba di Palestina.

L’idea dell’identità fra sionismo e bolscevismo fu affermata per incoraggiare i dirigenti imperialisti a togliere solidarietà al sionismo. Quest’idea assunse una forma chiara in un libro destinato in special modo ai lettori britannici, in particolare a quelli che erano legati all’amministrazione della Palestina. «È naturale che gli arabi siano irritati dall’audacia e dall’aggressività di questi nuovi arrivati e siano influenzati dai princìpi sociali e bolscevichi che essi portano con loro. Un forte elemento bolscevico si è già stabilito nel paese ha prodotto il suo effetto sulla popolazione»[11].

Ogni atto reazionario compiuto nel mondo fu calorosamente applaudito dai giornali e dai dirigenti ufficiali arabi. Così, il 4 aprile 1935, Al-Jami’a Al-Arabiya pubblicò un articolo di Shakib Arselan, un dirigente druso al servizio dell’Asse Hitler-Mussolini, nel quale egli scrisse: «Noi non dimentichiamo il lodevole comportamento del leader dell’Italia a sostegno degli arabi all’epoca in cui era redattore capo del giornale Il Popolo d’Italia… Noi consideriamo come un onore incontrare un grande uomo che è oggi praticamente il più importante Uomo di Stato europeo». E proseguiva enumerando i benefici di cui Mussolini aveva riempito Tripoli. In un’altra occasione, a proposito dell’invasione italiana dell’Abissinia, egli scrisse: «Non dobbiamo rimpiangere il governo abissino che per secoli ha oppresso i mussulmani del suo Paese». Esistono dirigenti di altri movimenti nazionalisti delle colonie che abbiano raggiunto una così profonda degradazione da sostenere una guerra imperialista contro un altro popolo coloniale?

Nello stesso numero di Al-Jami’a Al-Arabiya (4 aprile 1935) fu pubblicato un articolo intitolato L’Islam e gli ebrei, scritto dal mussulmano inglese Khaled Sheldrik, nel quale, tra le altre cose, dichiarava:

Hitler ha liberato la Germania dal giogo dei capitalisti ebrei… La Germania avanza oggi sul cammino del progresso… Se il successo di questo movimento persiste, gli altri Paesi ne seguiranno l’esempio…

Lo stesso giornale stampava costantemente articoli antisemiti estratti dal giornale inglese The Fascist, e le stesse idee erano ripetute in modo inequivocabile e in ogni passo dai dirigenti nazionalisti arabi di Palestina[12]. La ribellione di Franco fu salutata con entusiasmo dal giornale Al Liwa.

L’esistenza del sionismo e del sostegno che gli apportavano le masse ebraiche permise alla reazione feudale araba di deviare la collera antisionista dall’imperialismo e dalla minoranza di capitalisti in seno alla comunità ebraica. Invece che in quella direzione, essa fu incanalata verso una forma di odio razziale anti-ebraico.

La lotta di classe del proletariato arabo, che era ancora nella sua infanzia, non seppe né avanzare né rafforzarsi durante i sollevamenti nazionali del 1929 e del 1936-39. Al contrario, fu paralizzata. Mentre le rivolte popolari nei paesi coloniali vedevano gli scioperi contro il capitale straniero giocare un ruolo crescente, qualcosa di molto differente si produsse in Palestina. Dal 1933 al 1935, ci furono importanti scioperi economici dei lavoratori arabi, essenzialmente nelle imprese capitalistiche straniere: Irak Petroleum Co, Shell, nelle ferrovie, nel porto di Haifa, nella grande industria di tabacchi Karaman, Dick i Salti, etc.. Ma durante tutto il periodo dei tumulti del 1936-1939, non ci fu un solo sciopero nelle imprese controllate dal capitale straniero o dal governo.

Per i signori feudali e la borghesia arabi, il sionismo era la sola fonte di disaccordo con l’imperialismo. I dirigenti arabi non cessarono di sforzarsi di provare che potevano essere degli alleati affidabili dell’imperialismo, che questo poteva quindi fare a meno di utilizzare il sionismo come suo pilastro orientale. In modo costante, essi ripeterono il ritornello: la politica britannica di sostegno al sionismo è dovuta all’influenza degli ebrei ma è contraria agli interessi dell’Impero.

L’impasse nella quale erano contrapposti i lavoratori arabi ed ebrei non avrebbe potuto essere spezzata che da un movimento possente e dinamico della classe operaia araba. Purtroppo, la classe lavoratrice araba era troppo esigua e troppo debole per assolvere a questo compito.

La costruzione di un’organizzazione trotskista in Palestina

Dal 1938 fino al settembre 1946, fui impegnato nello sforzo di costruire un’organizzazione trotskista in Palestina. Era molto difficile. In tutto il pianeta, il trotskismo, la Quarta Internazionale, non giunse mai a provocare una rottura su larga scala dei ranghi dei partiti tradizionali del movimento operaio. In questo la sua sorte fu assai differente da quella della Prima, Seconda e Terza Internazionale.

[…] In Palestina, dovevo utilizzare tre lingue: per i lavoratori ebrei scrivevo in ebraico, firmando i miei articoli Y Tsur; per gli arabi, utilizzavo lo pseudonimo di Yussuf El Chakry, e i miei articoli in inglese erano firmati L. Rock. Tutti questi nomi significavano roccia o pietra.

Mentre tentavamo di costruire, nel 1938, un’organizzazione trotskista in Palestina, prendemmo contatti con l’organizzazione trotskista americana, il Socialist Workers Party. Questo ci inviava regolarmente degli articoli di Trotsky. Era per noi di importanza straordinaria. Malgrado tutto, non si andava avanti. Nel 1946, eravamo una trentina, fra i quali sette arabi, il resto erano ebrei. Fu molto difficile, per non dire impossibile, per i membri ebrei distribuire la rivista in arabo o i volantini in arabo. Era estremamente difficile per loro reclutare degli arabi nell’organizzazione perché pochissimi tra di loro lavoravano con degli arabi, come ho descritto precedentemente.

Perseverando, riuscimmo a conquistare dei preziosi lavoratori ed intellettuali arabi. Erano dei diamanti umani. All’inizio del 1940, potemmo reclutare il caporedattore di El Nur, il giornale arabo legale del Partito Comunista di Palestina clandestino. Si chiamava Jabra Nicola, era un uomo veramente brillante. Mentre lavorva per El Nur, Jabra si guadagnava da vivere come giornalista per un quotidiano arabo borghese. Lavorava di notte. Ogni giorno, alla fine del suo servizio, lo incontravo e discutevo con lui per tre o quattro ore. In capo ad un mese, arrivai a convincerlo. Può darsi che sia stato motivato anche dalla prospettiva di non essere più assillato! Fu veramente una grande riuscita. Affinché si comprendano bene le condizioni d’esistenza di Jabra, riferirò di un incidente. Chanie doveva vederlo per prendere in consegna un articolo che aveva scritto. Non potevo andarci io stesso perché mi nascondevo dalla polizia. Andò a “casa” sua – una sola stanza. In questa stanza, egli viveva con sua moglie e suo figlio di un anno, sua sorella vedova con suo figlio, e sua madre – che stava morendo di cancro.

Nel 1942 fu eletto segretario arabo del Partito comunista a Gerusalemme. La storia è molto affascinante. Dal settimo congresso del Comintern, nel 1935, fino all’agosto 1939, i partiti stalinisti di tutto il mondo insistevano sul fatto che la guerra in arrivo sarebbe stata una crociata antifascista. Con il Patto Hitler-Stalin dell’agosto 1939, la linea cambiò completamente: la guerra era ormai di natura imperialista. Quando la Germania nazista invase la Russia nel giugno 1941, si produsse una nuova brusca svolta. Churchill era adesso l’amico di Stalin e la politica del Partito Comunista britannico, ad esempio, consisteva nell’invocare un’alleanza con Churchill, a sventolare l’Union Jack ed a cantare con fervore “God save the King”. Era semplice.

Ma cosa si poteva fare in un Paese come la Palestina, dove vivevano due popoli separati, con dirigenti nazionali distinti, con degli inni e delle bandiere nazionali differenti? Con il Patto Hitler-Stalin, il Partito Comunista di Palestina affermò che l’intero Oriente era nemico dell’imperialismo e che

le masse indiane e arabe sono sul punto di rivoltarsi apertamente contro il dominio imperialista[13].

Quando i nazisti invasero la Russia, si produsse un cambiamento di linea radicale. Ormai,

il governo deve capire che dispone di una importante regione amica in Medio Oriente[14].

Poco prima, il

governo britannico della Palestina (rappresentava) un regime di sottomissione, di sfruttamento, di repressione e di nera reazione. Questo regime (era) lo stesso che quelli di Hitler e Mussolini, con i quali l’imperialismo franco-britannico (lottava) per il monopolio dello sfruttamento del proletariato dei Paesi capitalisti e delle nazioni oppresse delle colonie[15].

L’Alto Commissario britannico era oramai il rappresentante della democrazia, e

noi conserviamo nei nostri cuori le sue buone qualità personali… la manifestazione delle sue vere caratteristiche sociali[16].

Con la virata di 180° della politica degli stalinisti nel giugno 1941, divenuti entusiasti sostenitori della “guerra per la democrazia”, gli stalinisti ebrei manifestarono, salvo qualche eccezione, una certa ambivalenza riguardo al sionismo. Evidentemente, ciò non era possibile per gli stalinisti arabi. Il partito si divise in due: il partito ebraico (che non aveva un solo membro arabo) continuò a portare il nome di Partito Comunista di Palestina (PCP); il partito arabo, che secondo i suoi statuti non doveva avere che membri arabi, fu chiamato la Lega Nazionale della Libertà. Cominciò una gara patriottica fra i due partiti. Il giorno della vittoria in Europa (VE Day), il PCP marciò sotto la bandiera sionista bianca e blu, con lo slogan “Libertà di immigrazione”, “Estensione della colonizzazione”, “Sviluppo del focolare nazionale ebraico” e “Abbasso il libro bianco” (il White paper, con il quale il governo britannico aveva stabilito nel 1939 delle restrizioni all’immigrazione ebraica). La Lega Nazionale della Libertà partecipò al Fronte Nazionale Arabo, che racchiudeva partiti borghesi e feudali, e chiamava alla lotta “contro l’immigrazione sionista”, “contro il trasferimento di terre ai sionisti” e “per il libro bianco”.

Inviammo due compagni – un arabo ed un ebreo – a proporre la propria adesione alla Lega Nazionale della Libertà. Gli fu risposto: «D’accordo per l’arabo, ma non l’ebreo» i compagni risposero: «Noi vogliamo aderire insieme. Non accetteremo di lasciare uno dei nostri fuori». In seguito, inviammo gli stessi due compagni dal PCP, in cui i ruoli si invertirono. Di fronte a ciò, il segretario arabo della LNL di Gerusalemme si unì a noi.

Fu nel corso dello sciopero nazionale delle ferrovie del 1944 che si assistette al comportamento più scandaloso degli stalinisti, che ci permise di reclutare un dirigente arabo dei ferrovieri. Gli stalinisti avevano lasciato un volantino, scritto parte in arabo parte in ebraico. La prima parte finiva con lo slogan: «Per un comitato di sciopero democratico senza differenze di religione o di nazionalità». La parte in ebraico si concludeva con: «Eleggiamo un comitato di sciopero sulla base della parità tra arabi ed ebrei». Siccome praticamente nessun lavoratore arabo comprendeva l’ebraico e pochissimi ebrei leggevano l’arabo, gli stalinisti potevano ben sperare che la loro manovra passasse inosservata. Uno dei nostri compagni avvicinò un dirigente arabo e gli tradusse la parte in ebraico del volantino. Il ferroviere fu profondamente scosso, e quando la traduzione gli fu confermata da qualcun altro, ruppe con lo stalinismo e si unì al nostro gruppo.

Purtroppo, nel corso di lunghi mesi e lunghi anni, malgrado grandi sforzi da parte nostra, il gruppo rimase minuscolo. E, cosa ancora più frustrante, non aveva alcuna influenza sulla classe operaia. Infatti, una cellula media del Socialist Workers Party britannico di oggi ha più impatto di quanto non ne avessimo allora in Palestina.

I nostri magri risultati non erano il prodotto di pigrizia o dilettantismo; in effetti, ci diedero un sacco di guai. Personalmente, vivevo come un rivoluzionario di professione, impegnato a tempo pieno nella costruzione del gruppo. Nel 1936, prima che fondassimo il gruppo, lavorai per un anno per guadagnarmi da vivere. Diventai un operaio edile, convinto di non poter comprendere i lavoratori se non con il sudore della fronte. Allora per un anno sgobbai per circa dodici ore al giorno, sei giorni la settimana. Il risultato pratico fu che non potevo svolgere, per la fatica, nessuna attività politica degna di questo nome. Questa esperienza mi immunizzò contro la parola di sei lettere: lavoro, e da allora il mio tempo raramente fu impiegato per altro che non fosse l’attività politica. Riuscii a tradurre due libri in ebraico per denaro – uno dall’inglese, l’altro dal tedesco. Sia detto di sfuggita, la prima traduzione produsse una certa ilarità. Il libro che avevo tradotto era un volume massiccio, Il declino del capitalismo americano di Lewis Corey (membro fondatore del Partito Comunista americano). Quando ebbi finito la traduzione per conto della casa editrice di Hashomer Hatzair, Lewis Corey fu contattato per l’autorizzazione alla pubblicazione. Egli la rifiutò per il motivo, dichiarò, che «aveva smesso di essere marxista». Il secondo era un libro di Fritz Sternberg, il teorico tedesco del Partito Socialista dei Lavoratori (SAP).

Il denaro ricavato da queste due traduzioni fu un aiuto apprezzabile. In inverno raccolsi frutti nel vicino aranceto, cosa che costituiva un importante supplemento al regime di pane, prosciutto, un uovo al giorno, del tè e del latte con il quale sopravvivevo.

In ogni istante il nostro gruppo doveva fronteggiare grandi difficoltà. Per raccogliere gli articoli destinati alla nostra stampa, uno di noi, sconosciuto alla polizia o alle organizzazioni sioniste, doveva viaggiare per prenderli in consegna, ad esempio ad Haifa per portarli a Tel Aviv.

La stampa era un compito gravoso. Non potevamo rivolgerci a una tipografia commerciale perché le nostre pubblicazioni erano illegali. Non avevamo una macchina da stampa nostra; non avevamo nemmeno un duplicatore. Avevamo solo una fotocopiatrice a piano. Per cominciare si doveva battere a macchina la rivista su uno stencil. Poi si metteva lo stencil su un foglio di carta e si passava sopra un rullo ricoperto di inchiostro per ottenere la stampa. Bisognava fare molta attenzione a non sovrapporre un foglio stampato a un altro. I fogli dovevano essere stesi con cura fino all’asciugatura: un processo che richiedeva molto tempo.

Per qualche mese la nostra stampa fu ancora più onerosa. Un compagno operaio tipografo aveva rimediato una piccola macchina da stampa manuale, che conservavamo nella mia camera. Dovevo impostare i caratteri a mano, lettera per lettera. Ci voleva una vita. Un giorno, appena rientrato a casa, una ragazza che viveva nella stessa casa si precipitò a dirmi: «La polizia è nella tua stanza!». Ovviamente, me la battei a gambe levate. Ma che sollievo essersi sbarazzati di quell’attrezzo! Per un certo periodo mi svegliai nel cuore della notte con un incubo, sognando che forse ero stato io stesso ad informare la polizia per sbarazzarmi di questo peso.

Poi c’era la difficoltà di distribuire il giornale nelle varie città – non era il caso di utilizzare la posta. Un compagno doveva prendere una corriera, ad esempio da Tel Aviv a Gerusalemme, mettere il pacchetto nel vano bagagli, e fingere che non avesse nulla a che fare con lui nel caso la polizia perquisisse la vettura – cosa che capitava spesso. Le singole copie del giornale dovevano essere in seguito distribuite direttamente fra i contatti dei nostri militanti.

L’onere di pubblicare due riviste separate – una in arabo, l’altra in ebraico – e di tanto in tanto dei volantini in inglese per le truppe britanniche di occupazione in Palestina, per un piccolo gruppo di meno di trenta membri era veramente enorme.

Per la distribuzione dei volantini abbiamo dovuto essere molto innovativi. Non si poteva stare in strada e distribuire volantini. Inventai un paio di meccanismi per realizzare il volantinaggio. Dovevo trovare un edificio alto, diciamo di due o tre piani, lungo la strada principale della città. Salivo poi fino al tetto e legavo con uno spago i volantini. Lo spago passava attraverso una candela, e un capo doveva poi essere legato a qualcosa sul tetto. La candela era dentro una scatola di latta per proteggerla dal vento. Sciogliendosi la candela, il fuoco avrebbe raggiunto il laccio bruciandolo, liberando in tal modo i volantini che avrebbero volteggiato fino alla strada sottostante, nella speranza che fossero presi e letti dai passanti. Che gioia era stare in strada e vedere i volantini sparpagliati.

Un altro marchingegno consisteva in uno spago ad un capo del quale erano legati i volantini, mentre all’altro una lattina di acqua con dei fori sul fondo. La perdita d’acqua sbilanciava i volantini, che si sparpagliavano verso il basso e venivano così distribuiti.

La polizia non era il solo pericolo al quale eravamo esposti, c’erano anche le organizzazioni sioniste. Per illustrare questo aspetto, racconterò due aneddoti.

Un giorno io e la mia ragazza stavamo camminando verso casa mia a Gerusalemme. Quando ero proprio di fronte ad essa, vidi due giovani uomini alti al cancello della casa. Immaginai chi fossero, ma era troppo tardi. La mia amica aveva già varcato il cancello e io non potevo lasciarla da sola, così la seguii. I due giovani mi hanno picchiato. Alla fine, siamo riusciti a scappare. Al mio ritorno ho trovato un avviso sulla mia porta che mi minacciava di gravi conseguenze se non avessi lasciato Gerusalemme. Non avevo altra alternativa che seguire le istruzioni dell’Etzel [acronimo per Irgun Zvai Leumi], l’organizzazione paramilitare fascista.

Il secondo incidente si verificò durante un’assemblea di studenti all’Università Ebraica in cui era presente un oratore di estrema destra dei Revisionisti, oggi chiamati Likud. I Revisionisti utilizzavano lo stesso saluto dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi – il braccio teso. Il loro quartier generale a Tel Aviv era chiamato “la Casa Bruna” ad imitazione di quello dei nazisti a Monaco. Questo oratore in particolare attaccò ferocemente il marxismo, definendolo «un’ideologia gentile [non-ebraica] che avvelena il nostro spirito ebraico». Si trattava dell’immagine speculare della propaganda nazista che qualificava il marxismo come giudaismo. Alla fine del suo discorso mi alzai e dissi: «Sono d’accordo con l’oratore, il marxismo è gentile, ma il saluto hitleriano e le camicie brune non lo sono». Il prezzo da pagare fu quello d’essere pestato.

La minaccia maggiore, ovviamente, era la polizia. Qualche giorno dopo lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, il 1° settembre 1939, due poliziotti in borghese bussarono alla porta della casa in cui vivevo ad Haifa. Erano venuti per una perquisizione. Non trovarono nulla di incriminante, ma mentre frugavano parlavano tra di loro con l’evidente scopo di intimidirmi. Uno di loro descrisse con precisione l’aspetto della mia ragazza, l’altro aggiunse: «Quand’è che la violentiamo?». Benché fossi convinto che si trattasse solo di una guerra psicologica contro di me, ero comunque spaventato.

Due giorni più tardi, ritornarono gli stessi due poliziotti. Nel frattempo, avevo scritto un volantino contro la guerra, il cui tema principale era che si trattava di una guerra imperialista e che i lavoratori dovevano unirsi per combattere il capitalismo; per usare le parole di Lenin, «trasformare la guerra imperialista in guerra civile», e realizzare una rivoluzione internazionale. Una frase del volantino mi è rimasta impressa nella memoria: «52 Stati della Società delle Nazioni riconoscono il diritto del sionismo a costruire un focolare nazionale ebraico in Palestina, ma il villaggio di Qaqoon no».

Poco prima di iniziare a distribuire il volantino chiesi a mio fratello, anche lui membro del nostro gruppo trotskista, di assicurarsi che la nostra stanza fosse “pulita”. L’indomani, i due poliziotti riapparvero. Pochi secondi dopo essere entrati nella stanza, uno di loro sollevò un giornale e vi trovò sotto la bozza del volantino scritta a mano da me. Se si fosse trattato di un volantino stampato avrei potuto affermare di averlo semplicemente trovato per strada, ma ora la prova era inconfutabile.

Io e mio fratello, che aveva due anni più di me, siamo stati presi e messi in una cella di una stazione di polizia. Dopo tre giorni e tre notti di completo isolamento, poco dopo mezzanotte fummo svegliati, ammanettati e portati a fare una passeggiata. Dietro di noi, i due poliziotti parlavano tra di loro: «Dove buttiamo i corpi?». Io sussurrai a mio fratello: «Non preoccuparti! Ci stanno solo preparando per l’interrogatorio». Purtroppo, quando arrivammo al quartier generale del CID, mio fratello era bianco come un lenzuolo.

Un ufficiale mi aveva appena interrogato quando mise sul tavolo un modulo stampato con il mio nome compilato e una sentenza di “12 mesi di detenzione”. (Mio fratello fu condannato a sei mesi di coprifuoco serale. Lasciò il gruppo).

Arrivando in prigione, incontrai il segretario generale del Partito Comunista di Palestina, Meir Slonim, che era detenuto da diversi anni. Allo scoppio della guerra, chiese di arruolarsi nell’esercito britannico – del resto, fin dal Settimo Congresso del Comintern dell’agosto 1935, gli stalinisti avevano sostenuto con forza che la guerra in arrivo sarebbe stata una guerra contro il fascismo. Ci vollero delle settimane prima che il Colonial Office di Londra rispondesse alla richiesta di Slonim di uscire di prigione ed arruolarsi nell’esercito. Sfortunatamente, nel frattempo Slonim aveva appreso che la guerra non era antifascista bensì imperialista, così rifiutò di lasciare la prigione. Così andavamo in giro dicendo: «Noi qui siamo prigionieri, ma Slonim è un volontario».

Il passato degli altri quattro trotskisti era interessante. Erano emigrati dalla Germania. Arrivando in Palestina si erano informati su di noi ed erano giunti alla conclusione che in Palestina non si poteva fare nulla. Avevano raccolto le nostre pubblicazioni con il progetto di produrre un articolo da sottoporre all’attenzione di Trotsky che spiegasse perché l’attività in Palestina era inutile. Quando furono arrestati, la polizia gli trovò addosso questa considerevole quantità di materiale e concluse di aver messo le mani sul quartier generale dei trotskisti. Questi sventurati furono condannati a 30 mesi di prigione. Quando li incontrai, gli dissi: «Vedete, quando si è attivi si prendono 12 mesi, ma quando si è passivi se ne prendono 30».

Nella stessa prigione incontrai Avraham Stern, dell’omonimo gruppo terroristico sionista di estrema destra, la “Stern Gang”, che organizzò alcuni sensazionali attentati contro le installazioni britanniche. Stern fu più tardi assassinato da agenti britannici. Egli mi spiegò l’adozione dei simboli fascisti e mi diceva che la Gran Bretagna aveva bisogno del sionismo per affrontare il mondo arabo. L’imperialismo italiano era più debole di quello inglese, e quindi aveva ancora più bisogno del sionismo. Pertanto, nell’aspettativa che l’Italia e la Germania vincessero la guerra, si stava orientando a corteggiare i fascisti. Naturalmente, questo orientamento fu sviluppato molto prima che si venisse a sapere dell’Olocausto.

C’era anche Moshe Dayan, il futuro Segretario alla Difesa del primo governo israeliano, detenuto per aver contrabbandato illegalmente armi nel Paese.

La prigione presentava un aspetto divertente. Nella biblioteca, nella sezione geografia, si poteva trovare un libro intitolato Il Capitale. Ma quando uno dei prigionieri ricevette per posta il romanzo di Stendhal Il rosso e il nero, non gli fu permesso tenerlo perché il regolamento non autorizzava i libri politici. Di fronte alla scarsità di letteratura, feci due cose: prima, decisi di imparare il francese, così presi Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne il francese, insieme alla sua traduzione in inglese, e li lessi frase per frase. Fu un modo utile per imparare la lingua. […]

L’urgenza di lasciare la Palestina per l’Egitto

Il fatto che il nostro gruppo non facesse passi avanti diventava sempre più frustrante. Formalmente, eravamo nel giusto: i lavoratori arabi dovrebbero combattere il sionismo e l’imperialismo, e rompere con i dirigenti arabi reazionari; i lavoratori ebrei dovrebbero unirsi alle masse arabe nella lotta. Abbiamo ripetuto più volte la parola “dovrebbero”. Se ne può trovare testimonianza in tre articoli che scrissi per il mensile trotskista americano New International: La politica britannica in Palestina (ottobre 1938), Il conflitto ebraico-arabo (novembre 1938), e La politica di classe in Palestina (giugno 1939). Usavo lo pseudonimo L. Rock.

Formalmente, ci attenevamo alla teoria della rivoluzione permanente di Trotsky. Ma questa teoria non si limitava a coniugare il verbo “dovere” al congiuntivo. Trotsky non si limitò a sostenere che il proletariato di Pietrogrado avrebbe dovuto guidare la massa dei contadini nella lotta contro lo zarismo e il capitalismo, o che avrebbe dovuto portare a termine i compiti della rivoluzione democratico-borghese (risoluzione della questione agraria, autodeterminazione delle nazionalità oppresse, etc.). Di fatto, fu esattamente questo l’impatto che ebbe su tutta la Russia l’azione rivoluzionaria del proletariato di Pietrogrado nel 1905, e, nel 1917, andò ancora più lontano e fu capace di incoraggiare la rivoluzione mondiale.

I lavoratori di una cittadina di provincia palestinese, o di poche città di provincia, non potevano avere lo stesso impatto. Avevamo ragione nel dire che la classe operaia araba avrebbe potuto rovesciare l’imperialismo e il sionismo, e spezzare la direzione reazionaria del popolo arabo. Ma la classe operaia palestinese non era che una piccolissima parte della classe operaia araba. Era minuscola in confronto alla classe operaia egiziana. Nel 1944, il numero complessivo dei salariati palestinesi era stimato in 160.000 unità. Di contro, il numero di salariati egiziani, senza contare gli operai agricoli, che erano molto numerosi, era superiore ai due milioni.

Il più alto numero di lavoratori palestinesi impiegati in una stessa unità lavorativa – le ferrovie –nel 1944 era di 4000 unità. In Egitto, l’impresa tessile di Mekhala-el-Kubra impiegava più di 30.000 persone; le officine meccaniche e per la riparazione di pneumatici di Tel-el-Kabir impiegavano 17.000 lavoratori; le filande di Alessandria, Filatule Nationale, ne impiegavano 10.000[17].

La lotta della classe operaia in Egitto era molto più avanzata di quanto fosse in Palestina e da allora si è mantenuta ad un livello elevato[18].

Confrontando la Palestina con l’Egitto, mi sono sempre più convinto che la classe operaia della prima fosse troppo debole per svolgere il ruolo di una leva nella lotta in Medio Oriente. La classe operaia egiziana era decisamente il fattore-chiave in Medio Oriente. […]


NOTE

[a] https://www.theguardian.com/world/2023/oct/15/examples-jewish-arab-solidarity-offer-hope-israel

[b] https://www.open.online/2023/10/26/gerusalemme-appello-rabbini-violenze-contro-lavoratori-arabi

[c] https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/10/22/a-tel-aviv-brutta-aria-per-gli-arabi-israeliani-i-pacifisti-e-gli-studenti/7330592 e https://ilmanifesto.it/violenze-privazioni-e-arresti-di-massa-la-vendetta-passa-anche-dalle-carceri

[d] G. Kanafani, La rivolta del 1936-1939 in Palestina, 1972, CDP, Roma, 2016, p. 19.

[e] https://www.middleeastmonitor.com/20191211-wages-of-jewish-workers-in-israel-35-higher-than-arab-counterparts

[f] Nel 2012, il reddito medio mensile dei lavoratori salariati ashkenaziti urbani era superiore del 42% rispetto al salario medio di tutti i lavoratori salariati, mentre i salari dei lavoratori salariati urbani mizrahi erano solo del 9% superiori alla media. Cfr. https://www.timesofisrael.com/study-finds-huge-wage-gap-between-ashkenazim-mizrahim

[g] Anche chi cercava di porre all’ordine del giorno quantomeno delle istanze di classe doveva subirne estreme conseguenze: «All’inizio degli anni Trenta, il gruppo del Muftì assassinò Michel Mitri, presidente della Federazione dei Lavoratori Arabi a Giaffa. Dieci anni dopo, anche Sami Taha, sindacalista e presidente della Federazione dei Lavoratori Arabi di Haifa, fu assassinato alla stessa maniera.» G. Kanafani, op. cit., p.  25.

[h] A. Koestler, Ladri nella notte, Mondadori, Milano, 1947, pp. 171-172.

[1] Chanie Rosenberg, moglie di Tony Cliff [N.d.R.].

[2] Jewish Labour, una serie di articoli e di discorsi pubblicati dalla Histadrut in ebraico (Tel Aviv, 1935), p 53.

[3] From We and Our Neighbours, discorsi e saggi (Tel Aviv, 1931) in ebraico.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] The War Front of the Jewish People, in ebraico.

[8] The Guardian, 26 marzo 1999.

[9] Al Liwa, 1° giugno 1936.

[10] Yu Haikal, The Palestine Problem (Jaffa), in arabo, pp. 215-216, 219.

[11] M. Magannan, The Arab Women and the Palestine Problem (1937), in arabo, pp. 217-218.

[12] Vedere, per esempio, Falastin, 4 febbraio 1937.

[13] Kol Ha’am (organo in ebraico del Partito Comunista di Palestina), giugno 1940.

[14] Ibid., dicembre 1942.

[15] Ibid., luglio 1940.

[16] Al-Ittihad (organo degli stalinisti arabi in Palestina), 3 settembre 1944.

[17] A. Cohen, The Contemporary Arab World (Tel Aviv, 1960), in ebraico, pp 168-169.

[18] Di seguito un elenco delle principali lotte in Egitto negli anni ’80 e ’90:

1984: La maggior parte dei 26.000 operai della Misr Fine Spinning and Weaving Company di Kafr al-Dawwar occupa la fabbrica per la democratizzazione del sindacato (gestito dallo Stato). Massiccia solidarietà locale e “rivolta” di tre giorni. La polizia antisommossa fa irruzione nella fabbrica: tre morti, 220 arresti.

1986: Sciopero di Mahalla al Kubra: 25.000 lavoratori in sciopero. Gli operai hanno condotto manifestazioni di massa in tutta la città. Centinaia di persone sono state arrestate.

1986: Sciopero delle ferrovie: grande vertenza nazionale che paralizza l’intera rete per tre giorni, a cui partecipano 10.000 lavoratori. Centinaia di persone furono arrestate per aver condotto uno sciopero illegale.

1986: Tutti i 17.000 operai della fabbrica tessile Esco di Shubra al-Khayma (a nord del Cairo), di cui un terzo donne, partecipano alla lotta salariale. La polizia antisommossa fa irruzione nella fabbrica, ma la maggior parte delle richieste viene soddisfatta.

1989: 27.000 operai dell’acciaieria di Helwan occupano l’impianto per due settimane per questioni salariali e di democratizzazione sindacale. I dirigenti sono presi in ostaggio. La polizia antisommossa fa irruzione nell’impianto: un morto, 700 arresti.

1994: 25.000 operai scioperano e occupano la fabbrica di Kafr al-Dawwar. Manifestazioni di massa in città circondano la fabbrica. Quattro morti, centinaia di arresti.

1998: 5.000 lavoratori dell’azienda vinicola e di lavorazione della frutta Gianaclis (nel Delta) scioperano e occupano gli stabilimenti in opposizione alla privatizzazione. Il proprietario viene preso in ostaggio e liberato solo dopo un massiccio intervento della polizia. Centinaia di arrestati.

1998: 15.000 operai del settore tessile della seta a Helwan occupano la fabbrica e conducono grandi manifestazioni. Il governo chiuse la fabbrica per 30 giorni. (Ringrazio Phil Marfleet per queste informazioni).

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